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sabato 3 marzo 2018

Castellina in Chianti - Andati via i giovani italiani, ha una nuova vita grazie agli immigrati. E' la bell'Italia del presente del futuro.

New York Times
Castellina in Chianti, Italia — L’edificio a tre piani non è cambiato molto. Le lavagne a quadri sono ancora appese alle pareti color ocra della classe. Anche il rituale mattutino è familiare. Due studenti scorrono le file dei piccoli banchi di scuola e raccolgono i quaderni degli esercizi, che l’insegnante mette via nello stesso armadio che è lì dalla fine degli anni ’80, quando anch’io ero un’alunna della scuola elementare di Castellina in Chianti.


Ciò che è cambiato sono gli studenti. Nella mia infanzia a Castellina, solo uno dei miei compagni di classe veniva da un’altra città, trasferitosi da Grosseto al nostro antico borgo fortificato di 2.800 anime. Come me, era toscano, eppure ci sembrava un esotico forestiero.

Adesso più della metà dei 23 alunni della seconda elementare sono nati da genitori provenienti da Bosnia, Albania, Macedonia, Marocco, Tunisia, Pakistan e Afghanistan. Cinque di loro sono nati nel Paese di origine della famiglia o in paesi di transito per l’Europa. Questa è la nuova Italia.

All’inizio, non avevo prestato molta attenzione a cosa stava avvenendo nel mio paesino. Ero parte di una diversa migrazione, la massa di italiani dai 20 ai 40 anni che si sono laureati e hanno lasciato i loro borghi, dove le opportunità di carriera erano limitate. Alcuni sono andati a Berlino, a Londra, a Denver o a Parigi, dove uno dei miei più cari amici d’infanzia vive tuttora. Per lavoro, io sono arrivata in una grande città, a Roma.

Per molti turisti, la grande magia dell’Italia è la sensazione che niente cambi, come la bellezza senza tempo di Roma o Firenze o di paesi come Castellina, dove il castello e le mura risalgono al 1400. Tuttavia c’è un cambiamento che scuote il Paese adesso che gli italiani si preparano a votare nelle elezioni politiche del prossimo 4 marzo. Nessuna questione infiamma gli animi più dell’immigrazione. Nessuna questione è più sentita della debolezza economica che ha afflitto la mia generazione.

Non mi aspettavo che entrambe le problematiche avessero silenziosamente rimodellato il mio paese. La mia famiglia vive a Castellina da generazioni, sono la nipote di un contadino di una regione molto famosa per il suo vino. Oggi però sono i migranti che curano molti campi e si occupano degli anziani, i cui figli e nipoti vivono altrove. Gli stranieri sono il 17 percento della popolazione.

Quello che è successo qui, moltiplicato per le migliaia di borghi, spiega come stanno cambiando molti piccoli paesi in Italia. La reazione al cambiamento non è stata sempre la stessa, anzi, in alcuni posti ci sono state reazioni violente. Qualche settimana fa, un estremista di destra ha sparato a sei migranti africani nella città di Macerata. Alcuni politici di destra lamentano “l’invasione” e uno in particolare ha sostenuto che i migranti minacciano la “razza bianca”.

A livello nazionale il tema dell’immigrazione è molto divisivo. Pochi giorni prima di Natale, il governo non è riuscito a ottenere il sostegno necessario in Parlamento per approvare una legge disegnata per naturalizzare 800.000 bambini. Sono i figli e le figlie di immigrati nati in Italia o che sono arrivati molto piccoli e con genitori che hanno permessi di residenza e di lavoro a lungo termine. Questo significa che molti dei piccoli delle elementari di Castellina vivono in un limbo, anche quelli che abitano qui da anni.

Da molto tempo vedo a Castellina migranti che lavorano nei campi e alcune donne che indossano il velo, ma non avevo capito quanto il mio paese fosse cambiato fino all’anno scorso, durante una chiacchierata con Francesco. Ha nove anni e la mia mamma è la sua tata da otto, un po’ la sua nonna onoraria.

Una sera a cena, Francesco mi ha detto che era triste perché il suo amico Igor se ne era andato. Igor si era rifugiato qui dall’Ucraina, ma ora poteva tornare a casa perché non cadevano più le bombe e suo padre aveva lasciato l’esercito. Sono rimasta colpita dalla storia di Igor ma anche dal fatto che Francesco, un bambino nella mia piccola Castellina, sapesse così tanto degli avvenimenti mondiali attraverso un compagno di scuola.

Una mattina, sono andata alle elementari e ho incontrato gli alunni della seconda, che hanno insistito perché scrivessi i loro nomi nel mio taccuino. Temevano che fossero difficili da pronunciare per gli italiani, come è arduo per loro avere padronanza dell’italiano.

“La nostra lingua è complessa” mi ha spiegato la maestra Maria Luisa Roscino. “I bambini imparano velocemente, ma alcuni di loro a casa non parlano italiano, cosa che li penalizza”.

La maestra Roscino insegna da 28 anni ed è approdata alla scuola elementare di Castellina nel 1998. Questa è la sua prima classe in cui la maggioranza degli studenti, il 51 percento, è nata all’estero o da genitori stranieri.

“È impegnativo, specialmente per le differenze culturali”, dice la maestra. “Per il resto, i bambini sono semplicemente bambini”.

Quattro anni fa, ero a bordo di una motovedetta della Guardia Costiera italiana, per un articolo sui migranti che annegavano attraversando il Mediterraneo per raggiungere l’Italia. Ci trovammo a salvare un vecchio barcone da pesca di legno, caricato all’inverosimile con gente disperata, molti dei quali erano siriani in fuga dalla guerra, che avevano pagato i trafficanti per raggiungere l’Europa. Mentre la Guardia Costiera aiutava le persone a salire sulla nostra motovedetta, un bambino di circa quattro anni di Damasco mi guardava fisso. Non smise di guardarmi per due ore.

“Dice che assomigli alla sua mamma” mi disse suo padre attraverso un traduttore. “È morta sotto le bombe in Siria”.

La mattina dopo, andammo a vedere come stava il bambino in uno dei centri di raccolta siciliani, dove le autorità sistemavano i migranti che arrivavano a frotte nell’isola. Masticava un biscotto e, con la bocca piena di briciole, mi mandò un bacio. Pensai che l’unica differenza tra me e sua mamma era la fortuna di dove ero nata. In Toscana, non in Siria.

Molti siriani, così come i bengalesi, i gambiani, i nigeriani e molti altri sono arrivati nella mia regione dopo che le politiche del governo nazionale, per alleggerire il carico di sbarchi sulla Sicilia, nel 2015 hanno accelerato e allargato la distribuzione di migranti in tutto il resto del Paese. A quel punto, le autorità europee avevano bloccato la via verso nord, chiudendo i passaggi attraverso l’Italia o i Balcani, mentre le persone continuavano ad attraversare il Mediterraneo.

Molti italiani avevano aperto le loro case a coloro che erano sbarcati. Nascevano squadre di calcio di migranti. L’Italia veniva lodata globalmente per il suo abbraccio accogliente e dal cuore grande. Ma i profughi arrivavano in ogni regione d’Italia, e una certa resistenza, una certa rabbia iniziavano a manifestarsi.

Alcuni comuni tentavano di bloccare i trasferimenti. Matteo Salvini, leader della Lega, partito anti-immigrati di estrema destra, teneva comizi in tutta Italia al grido dello slogan “prima gli italiani”, accusando il governo di centro sinistra di aver trasformato il Paese in un “grande campo profughi”.

Oggi a Castellina abitano persone dell’Africa sub-sahariana, così come kosovari, marocchini, tunisini ed altre nazionalità. Una delegazione della Lega è arrivata a protestare contro l’ultimo arrivo di migranti in paese, ma senza riuscire a suscitare grande rabbia. La Toscana è una terra di sinistra da decenni.

Ho lasciato Castellina nel 2005, ma sono una dei tanti italiani che affollano treni e bus il venerdì sera per ritornare nei loro paesi di origine. Spesso passo i miei fine settimana con la mia famiglia e i miei amici, molti dei quali vivono in altre città come me, ma tornano sempre a Castellina. Una sera, ho sentito la storia di una signora pakistana, Lubna Batool, un medico, che adesso vive qui. Quando sono andata a trovare i bambini delle elementari, ho incontrato lei e sua figlia.

La Signora Batool ha seguito suo marito, un signore afghano che ha un permesso di soggiorno a lungo termine a Castellina. Lo ha raggiunto otto anni fa, quando la crisi economica si stava aggravando. Nel sud-ovest del Pakistan era un medico, ma non è ancora riuscita a trovare lavoro in Italia. Ha comprato libri costosi ed è andata a Roma per fare un complesso esame per vedersi riconosciuta la sua laurea in medicina.

Oggi Castellina ha solo due medici di famiglia, incluso il mio, il Dottor Giuseppe Pacella. Uno dei migliaia di medici italiani che andrà in pensione tra pochi anni, è lui che incoraggia la Signora Batool ad insistere con l’esame di stato, in parte perché si preoccupa di chi prenderà il suo posto.

“Queste persone non solo hanno una laurea, ma hanno anche resistito a guerre, trasferimenti e problemi economici”, mi ha detto il Dottor Pacella. “Dobbiamo integrare le persone che vogliono lavorare, perchè ne beneficieremo tutti”. Tuttavia la coesistenza e l’integrazione sono due cose diverse. Per certi versi, Castellina è la stessa di quando vivevo lì. C’è sempre lo stesso forno, anche se ora è gestito dalla generazione successiva. La gioielleria e il negozio di elettronica hanno sempre la stessa gestione, una signora e il suo socio, che aggiustano qualsiasi cosa anche ora che le loro mani sono affaticate e i loro occhiali più spessi. Molti dei camerieri e dei lavapiatti nei ristoranti sono migranti.

Così come la mano d’opera che lavora in agricoltura, incluso il marito della Signora Batool, Ali Mohammad. L’ho incontrato un giorno d’inverno al lavoro nelle vigne tra pozzanghere congelate e la bianca brina mattutina. Legava con dei ganci i fili di ferro che raddrizzano le viti, un lavoro che un tempo facevano mio nonno e i miei antenati. Più tardi, alcuni dei lavoratori se ne sono andati al bar che era il luogo di ritrovo di noi adolescenti.

Nel pomeriggio, il nostro postino in pensione raggiunge l’ex gestore della tabaccheria e altri pensionati per giocare a carte in una delle stanze sul retro. Alla sera, i migranti si ritrovano sulle scale davanti al bar. Sono la nuova faccia della vita sociale del paese. Gli habitué e i nuovi arrivati si mescolano raramente, vivono in mondi paralleli ma divisi in parte dalla lingua.

Come molti dei miei amici d’infanzia, ho ancora la residenza a Castellina. Paghiamo le tasse qui. Votiamo qui. Ma non ci viviamo più. La nostra è la generazione che se n’è andata, per necessità o per opportunità. Eppure il paesino lega ancora me e i miei amici. Quando muoiono i nonni, presenziamo al funerale. Quando qualcuno si sposa, andiamo al matrimonio. Il mio cuore è in pace quando vedo le vigne e la torre medievale a distanza.

Oggi, però, Castellina non appartiene solo a me e ai miei amici. L’ho capito quando ho incontrato Bilal El Hartika, 9 anni, nato in Toscana da genitori marocchini. Ho chiesto se si sentiva a casa qui.

“Sono marocchino e italiano, di Castellina”, mi ha risposto senza esitazione. “Questa è casa mia”, ha aggiunto in arabo, “La mia dar”.

Gaia Pianigiani

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