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mercoledì 21 marzo 2018

Internati, dopo la pena non sono liberati ma condannati all'ergastolo bianco

Il Dubbio
Sono i reclusi che, dopo aver scontato una pena, non vengono liberati perché considerati pericolosi. Il Garante Mauro Palma ha sottolineato che la criticità riguarda la loro permanenza in carcere invece di stare in Casa di lavoro, Colonia agricola o Rems.

Casa Lavoro di Vasto
Ufficialmente non scontano una pena detentiva, perché hanno già pagato il loro conto con la giustizia. Per questo motivo, nel glossario del diritto penitenziario, vengono definiti "internati" per distinguerli dai "detenuti".

In sintesi, sono i reclusi che, dopo aver scontato una pena, non vengono liberati perché considerati pericolosi. Alla fine del 2016 era 295, secondo i dati del Dap. Eppure la differenza, di fatto, non esiste. Alcuni sono internati in 41 bis, altri nelle celle assieme ai detenuti, altri ancora si trovano internati nei penitenziari in attesa di trovare posto nelle Rems.

Il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, nella relazione del suo primo anno di attività, ha infatti sottolineato che la criticità riguarda, in primo luogo, la permanenza negli Istituti penitenziari di queste persone che, scontata la pena, devono eseguire una misura di sicurezza detentiva: l'assegnazione a una Casa di lavoro, Colonia agricola o, per quanto riguarda le patologie psichiatriche il ricovero in una Rems, si trasformano in concreto nella continuazione della vita detentiva giacché gli internati vengono spesso trattenuti nell'Istituto penitenziario e, a volte, nella medesima stanza di detenzione e sezione.

Gli internati - definizione che richiama il vecchio linguaggio manicomiale - vivono in carcere a tempo indeterminato, quasi come se fosse un fine pena perché, appunto, una pena da scontare non ce l'hanno. Il rischio è di scontare, di fatto, una lunghissima pena nonostante abbiano già fatto i conti con la giustizia. Gli internati, infatti, chiamano la loro condizione "ergastolo bianco", perché la misura di sicurezza può essere prorogata diverse volte.

Il motivo? Subentra un meccanismo nel quale, non lavorando di fatto, gli internati non offrono elementi per far valutare ai giudici la loro cessata o diminuita pericolosità. A quel punto non possono che scattare le proroghe dell'internamento. Prima del 2014, il rischio di chi è internato era davvero quello di scontare una pena perpetua.

A far fronte a questo problema, ai sensi dell'art. 1 comma 1ter del D.L. 31 marzo 2014 n. 52 così come convertito in legge 30 maggio 2014 n. 81, si prevede che "le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima".

Questi internamenti sono misure che risalgono al codice fascista Rocco, non a caso diversi giuristi le definiscono "reperti di archeologia giuridica". Reperti che hanno anche una definizione ben precisa "il doppio binario".

Ovvero un doppio sistema sanzionatorio caratterizzato dalla compresenza di due categorie di sanzioni distinte per funzioni e disciplina: le pene, ancorate alla colpevolezza del soggetto per il fatto di reato e commisurate in base della gravità di quest'ultimo, e le misure di sicurezza, imperniate sul concetto di pericolosità sociale dell'autore del reato e di durata indeterminata. Il doppio binario si risolve, con riferimento ai soggetti imputabili e al contempo socialmente pericolosi, nell'applicazione congiunta di pena e misura di sicurezza: è questo il profilo più problematico dell'istituto, che può tradursi in una duplice privazione della libertà personale dell'individuo, ben oltre il limite segnato dalla colpevolezza per il fatto.

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Damiano Aliprandi

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