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mercoledì 30 agosto 2017

Ius soli, la bufala sull’islamizzazione dell’Italia. I numeri parlano chiaro.

Wired
I numeri della Fondazione Moressa parlano chiaro: degli 800mila bambini potenziali beneficiari della riforma il 16,1% professa religione cattolica o protestante, il 28% ortodossa, il 38,4% islamica, l’1,8% buddista e il 3,1% induista


C’è da chiedersi chi abbia paura di questi 800mila bambini italiani de facto. Lo studio della Fondazione Leone Moressa riportato da Repubblica fa ordine sui potenziali beneficiari della riforma dello ius soli, quella su cui Angelino Alfano – al massimo dell’italianismo possibile – dice di non avere alcuna obiezione ma, al contempo, di trovare non opportuna. Chissà, forse collega i sacrosanti diritti di cittadinanza alle cronache sugli attentati o sugli sgomberi, contribuendo ad accreditare nell’opinione pubblica un collegamento che non esiste. Peggio, tossico.

I numeri dell’indagine parlano da soli. Dando una mano, se ce ne fosse bisogno, a smontare ulteriormente la bufala dell’islamizzazione dell’Italia tanto cara alla nebulosa della sgangherata alt right tricolore cacciata a fischi e pernacchie perfino dalle pacifiche comunità parrocchiali delle chiese pistoiesi (vedi alla voce don Biancalani). Secondo lo studio, i ragazzi a cui si applicherebbe la nuova legge qualora fosse approvata (difficilissimo) dal Senato, dove promette d’impantanarsi, sarebbero 800.600, l’80% dei minori stranieri residenti in Italia. Il restante 20% non presenterebbe evidentemente i requisiti legati ai genitori o ai cicli scolastici seguiti nel nostro Paese. A regime diventerebbero poco meno di 60mila nuovi italiani ogni anno.

Il dato è ricavato dai numeri degli alunni stranieri in Italia nell’anno scolastico 2015/2016: 815mila ragazzi che, come si capisce, coinciderebbero in buona parte – in virtù della nascita italiana da un genitore con regolare permesso di soggiorno Uedi lungo periodo o del cosiddetto ius culturae, cioè l’arrivo entro i 12 anni e un ciclo scolastico di almeno cinque – con la platea dei beneficiari.

Simone Cosimi

Che fine ha fatto Santiago Maldonado? Desaparecido nell’Argentina di Macri

Left
Non si tratta di una storia di desaparicion forzata risalente agli anni della dittatura civico-militare. È il primo agosto 2017 e questa è la sorte toccata a Santiago Maldonato, un giovane artigiano di 28 anni, che durante una manifestazione in difesa dei diritti del popolo mapuche è stato fermato dalla gendarmerìa nacional «e non si è più visto». 

L’ultima denuncia in ordine di tempo è dell’organizzazione di giornalisti “Comunicadores de la Argentina” che tramite una nota diffusa in queste ore ha chiesto collaborazione alle associazioni internazionali affinché mantengano alto il livello di attenzione mediatica su questo caso. 
«Chiediamo il vostro aiuto perché diate notizia della sparizione forzosa di Santiago Maldonado, come tale è stata definita dalla procura che si occupa del caso a dagli organismi per i Diritti umani. Vi sollecitiamo a chiedere del detenuto-desaparecido in ogni occasione che vi si presenti, davanti ai rappresentanti diplomatici, ai funzionari del governo argentino che visitano i vostri paesi e anche agli artisti, sportivi ed accademici».
In Italia, la campagna è stata immediatamente rilanciata dall’associazione per i diritti umani 24marzo onlus che ha messo la storia di Maldonado in relazione alla vicenda di violazione dei diritti umani nei confronti di Milagro Sala (nella foto a destra), la deputata al parlamento del Mercosur e fondatrice del movimento Tupac Amaru di Jujuy, arrestata durante un picchetto in sostengo dei contadini senza terra e detenuta senza processo dal 16 gennaio 2016. Dieci giorni fa le autorità argentine, solo in seguito a una risoluzione delle Nazioni Unite che hanno dichiarato arbitraria la sua detenzione, hanno deciso di concedere alla deputata almeno gli arresti domiciliari. Ma, come scrive l’agenzia Pressenza, si tratta di una casa di proprietà della deputata che è stata saccheggiata da ignoti durante la sua prigionia, è senza luce, acqua, servizi igienici ed elettricità.

La scorsa settimana, la Commissione per i diritti umani dell’Organizzazione degli Stati americani ha chiesto al governo argentino di «prendere le misure necessarie» per ritrovare il giovane Santiago Maldonado e «indagare sui fatti relativi alla sua scomparsa». «Nulla si sa sul suo destino», ha precisato la commissione. L’ultima volta che il giovane è stato visto si trovava nella comunità mapuche di Chubut, durante una protesta per chiedere il rilascio del leader della collettività, Jones Huala. Testimoni hanno riferito che alcuni dei manifestanti sono fuggiti all’arrivo della gendarmeria sul posto: il giovane, hanno precisato, è stato arrestato e subito portato via su una camionetta. Da quel momento non si è più saputo nulla. Secondo quanto riporta l’Ansa, il ministro per i Diritti umani, Claudio Avruj, ha escluso «ogni indizio» su una presunta «sparizione forzata» del giovane, cioè per mano dello Stato come avveniva durante la dittatura civico-militare degli anni 70. «Tutte le possibilità sono aperte», ha precisato dicendo che il governo sta facendo tutto il possibile per chiarire il caso. Staremo a vedere.

Federico Tulli

USA - Ambiente - Texas allagata, ma non chiamateli cambiamenti climatici

Globalist
Un evento come quello di giorni non ha precedenti. Sicuro che gli Stati Uniti debbano stracciare gli accordi di Parigi?



C'era una volta un miliardario che ha negato l'esistenza dei cambiamenti climatici e ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dai tardivi (e timidi) accordi di Parigi.

Ma adesso il Texas, fortemente colpito da Harvey si aspetta ancora pioggia e 3.000 membri della Guardia Nazionale sono stati chiamati in soccorso. Lo ha detto il governatore del Texas Greg Abbott. "Continueremo a ricevere piogge incredibilmente pesanti", ha aggiunto. Nello Stato circa 250 strade sono state chiuse.

"Questo evento è senza precedenti e ogni tipo di impatto è sconosciuto e va al di là di qualunque cosa sperimentata finora", ha detto il servizio meteorologico nazionale Usa a proposito della tempesta tropicale Harvey che si sta abbattendo sul Texas.

Ma non chiamateli cambiamenti climatici

martedì 29 agosto 2017

Pago le tasse perché Raggi faccia pulizia sì, ma non di povera gente. Perché Minniti combatta le mafie, non le Ong

HuffPost
Come cittadino italiano e romano non pago le tasse da una vita perché la polizia possa sgomberare a colpi d'idranti nel cuore della capitale un gruppo di rifugiati etiopi ed eritrei con regolare permesso, scampati a guerre e persecuzioni, picchiando madri davanti agli occhi dei figli. Ho pagato le tasse e tante, poiché ho sempre guadagnato, perché lo Stato non affronti il problema della povertà con i manganelli e la polizia sgomberi le strade dai criminali. 


Le pago perché la giunta Raggi faccia pulizia sì, ma non di povera gente, piuttosto delle montagne d'immondizia che crescono perfino più del numero di assessori 5 Stelle e stanno trasformando la città più bella del mondo in una discarica a cielo aperto. Pago le tasse perché il ministro Minniti nei fatti e non a parole combatta 'ndrangheta, mafia e camorra, che non sono mai state tanto potenti, invece di fare la guerra alla Caritas e a Medici Senza Frontiere, organizzazioni dalle quali onestamente non mi sento minacciato. Anche se capisco che sia meno pericoloso e più redditizio in termini di voti.

La caccia al migrante sta diventando il tema dominante e condiviso di tre aree politiche, centrodestra, Pd e Cinque Stelle, che sono già in campagna elettorale, ma non hanno uno straccio d'idea, neppure vaga, sul come affrontare i seri problemi del Paese. Certo non "l'invasione" di 150 mila rifugiati su una popolazione di 60 milioni di abitanti, ma vogliamo far ridere? Piuttosto il livello record di giovani che non lavorano e non studiano, il progressivo declino industriale, l'esponenziale crescita delle mafie, il dissesto idrogeologico, il più alto consumo di territorio del continente, la catastrofe di una scuola tenuta in vita soltanto dal sacrificio degli insegnanti peggio pagati d'Europa, un ruolo sempre più marginale nell'Unione.

Su questi temi la politica nazionale non ha nulla da dire o da proporre. Encefalogramma piatto. Il leader reale del centrodestra, Matteo Salvini, non ha mai lavorato un giorno nella vita e quindi non s'interessa del settore. Il Pd è ridotto a una protesi dell'ego arroventato del suo leader, che ha dimostrato ad abundantiam nel libro appena pubblicato di non avere alcuna proposta seria da offrire agli elettori, ma soltanto vendette da consumare nel caso remoto che gli italiani lo rimandino a Palazzo Chigi. I nuovi dei 5 Stelle non sono in grado di amministrare Comuni e quindi figurarsi la Nazione, per giunta hanno assunto in fretta il costume trasformistico dei vecchi. Così il premier in pectore Di Maio, noto più che altro per l'uso avventuroso della lingua madre, si scaglia contro i governi condonisti responsabili della tragedia di Ischia, mentre i Comuni 5 Stelle cementificano ovunque, da Bagheria a Roma a Torino, autorizzando colate di centri commerciali e abusi edilizi, con la scusa dello stadio o dell'eredità del passato o degli abusi di necessità (fenomeno estinto in Italia da vent'anni) e magari domani di una infanzia difficile.

In assenza totale di programmi, piani industriali, semplici visioni del futuro del Paese, i tre schieramenti si fanno concorrenza nella caccia al capro espiatorio. E' davvero difficile spiegare oltre la cortina di Chiasso che in un paese dove le mafie vantano un giro di affari di 150 miliardi l'anno, tre volte il valore della Borsa di Milano, il ministro dell'Interno è impegnato in una polemica quotidiana, ormai da mesi, con Medici Senza Frontiere, Emergency, la Caritas e ora anche l'Unicef e papa Francesco. Il Grillo di un tempo avrebbe risposto a tutto questo con una sola parola. Ma anche lui adesso opera dei distinguo.

Curzio Maltese

Arrivato questa mattina nuovo gruppo di profughi con i #corridoiumanitari.

www.santegidio.org
Sono da poco arrivati all’aeroporto di Fiumicino altri 35 profughi siriani dal Libano grazie ai corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Tavola Valdese. Con questo nuovo gruppo, costituito da famiglie con molti minori, si è raggiunta la cifra di 900 persone.



Alle 10:30 sarà trasmessa la diretta streaming della Conferenza stampa.

Intervengono Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio, Masssimo Aquilante, ex presidente della FCEI, Mario Giro, viceministro degli Esteri, Donatella Candura, dipartimento Libertà Civili del ministero dell’Interno.

Siria - A Raqqa migliaia di bambini intrappolati a contatto con una violenza barbara

Save the Children
Siria: decapitazioni e bombe nella vita quotidiana dei bambini di Raqqa. Migliaia i minori intrappolati nella città, segnati indelebilmente dalla violenza e dalle deprivazioni

Sono migliaia, tra i 9.000 e i 12.000 circa, i minori intrappolati a Raqqa, dove sono esposti a brutali violenze e a bombardamenti. Decapitazioni e esplosioni sono entrate a far parte della loro quotidianità, in una vita di disperazione e deprivazione, come hanno raccontato i ragazzi sopravvissuti alla fuga dalla città della Siria settentrionale a Save the Children, l’Organizzazione internazionale che lavora dal 1919 per salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro.

Dall’avvio dell’operazione “Ira dell’Eufrate”, nel novembre 2016, sono sfollate 271.000 persone, il 75% dei quartieri della città risulta oggi abbandonato, solo 6 su 24 sono popolati. Metà delle persone che li abita è rappresentata da bambini, costretti ad affrontare condizioni durissime: il ricollocamento forzato nelle aree controllate dall’Isis e la carenza di cibo e acqua sono una minaccia costante alla loro sopravvivenza e al loro benessere. La situazione è resa ancora più difficile dagli attacchi aerei, che hanno già causato la morte di numerosi civili: le famiglie sanno di poter perdere la vita a causa di una bomba restando a Raqqa, così come sono consapevoli del rischio di morire tentando la fuga.

I giovanissimi superstiti incontrati da Save the Children, ora nel campo per rifugiati di Ain Issa, a nord di Raqqa, descrivono un livello di violenza inaudito: molti sono stati testimoni ravvicinati di esecuzioni e attacchi aerei. Raccontano di essere stati costretti a restare chiusi in casa per mesi, con la corrente elettrica a disposizione per poche ore al giorno, senza poter giocare né andare a scuola. Quelli che una volta erano spazi destinati alla socialità, come i parchi pubblici, sono stati trasformati nel palco di uccisioni, disseminati di corpi o parti di essi. “Non esiste più l’infanzia, i bambini hanno dimenticato cosa significhi. Se anche uno di loro volesse andare a scuola, gli verrebbe insegnato solo come combattere”, spiega Aoun scappato dalla città insieme alla famiglia. “L’Isis ha decapitato delle persone e lasciato i loro corpi a terra. Noi abbiamo visto tutto”, ricorda una delle sue figlie, Raashida, 13 anni. “Non riuscivo più a dormire, restavo sveglia per la paura. Ora dormo di nuovo, perché qui nessuno verrà ucciso in quel modo”.

Save the Children denuncia i danni prodotti dal conflitto su questi ragazzi: le ferite psicologiche causate loro impiegheranno anni, anche decenni, a guarire. Come l’Organizzazione ha rilevato in un recente studio sulla salute mentale dei bambini in fuga dall’Isis in Iraq, le esperienze drammatiche e di violenza estrema vissute in questo tipo di contesto sono causa di stress tossico, che può avere un impatto permanente sulla loro salute mentale e fisica.

“I bambini devono essere messi nella condizione di poter lasciare Raqqa senza dover temere di andare incontro alla violenza o alla morte e senza essere costretti a camminare per giorni attraverso campi minati, in cerca di sicurezza” ha dichiarato Sonia Khush, Direttrice di Save the Children in Siria. “È cruciale che ai sopravvissuti sia fornita assistenza psicologica, per aiutarli ad affrontare le brutalità a cui hanno assistito. Questi bambini possono sembrare normali all’esterno, ma dentro sono tormentati da ciò che hanno visto. Rischiamo di condannare una generazione a una vita di sofferenza, a meno che la questione della loro salute mentale non sia affrontata in modo adeguato”.

L’esigenza dei civili di poter lasciare Raqqa in modo sicuro, di non essere utilizzati come scudi umani dall’Isis e di non dover affrontare i bombardamenti aerei, appare ancora più evidente in un momento in cui è attesa l’intensificazione della battaglia per la liberazione della città. Save the Children ribadisce che proteggere i bambini intrappolati negli orrori della guerra deve essere la priorità.

A sei anni e mezzo dall’inizio del conflitto in Siria, Save the Children sarà presente alla 74a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia il 31 agosto e il 1° settembre con una forte iniziativa di sensibilizzazione sul dramma dei bambini siriani. L’iniziativa si terrà il 31 agosto, a partire dalle 10 sino alle 22.30 e il giorno successivo, dalle 10 alle 15.30, all’interno della rassegna “Isola Edipo”.
L’iniziativa è realizzata anche grazie alla collaborazione con la mostra fotografica “Fino alla fine del mare” di Jacopo Di Cera, che sarà in esposizione sulla barca “Edipo Re” di Pier Paolo Pasolini dal 31 agosto al 9 settembre.

lunedì 28 agosto 2017

Papa Francesco andrà in Myanmar e in Bangladesh. Appello per i Rohingya.

AsiaNews
L’annuncio dato oggi dalla Sala stampa e in contemporanea a Dakha e Yangon. Dal 27 al 30 novembre Francesco visiterà Yangon e Nay Pyi Taw. Dal 30 novembre al 2 dicembre visiterà Dhaka. L’appello di ieri sulla persecuzione dei Rohingya.


Papa Francesco si recherà in Myanmar dal 27 al 30 novembre prossimi e dal 30 novembre al 2 dicembre sarà in Bangladesh: lo ha annunciato stamane la Sala stampa vaticana aggiungendo che il pontefice ha accolto “l’invito dei rispettivi Capi di Stato e Vescovi”. In Myanmar il pontefice visiterà la città di Yangon e la nuova capitale Nay Pyi Taw.

Per il Bangladesh, la Sala stampa dice solo che egli visiterà la città di Dhaka, ma che il programma dettagliato del viaggio “sarà pubblicato prossimamente”.

Un possibile viaggio in Bangladesh era stato ventilato dallo stesso pontefice nell’ottobre 2016. A dicembre dello stesso anno, la premier bangladeshi aveva inviato una lettera al papa per invitarlo nel suo Paese.

Insieme al Bangladesh, il papa pensava di poter visitare l’India e su questo vi sono stati dei passi da parte della nunziatura di Delhi e da parte del governo indiano. Ma è molto probabile che la crescita di incidenti ad opera dei fondamentalisti nazionalisti indù contro i cristiani abbia costretto a rimandare questa tappa.

L’occasione della tappa in Myanmar è cresciuta durante questo anno: in marzo sono state riallacciate le relazioni diplomatiche fra Santa Sede e Myanmar; in maggio è giunta in Vaticano Aung San Suu Kyi, in funzione di ministro degli esteri del Paese.

La Chiesa cattolica dei due Paesi ha caratteristiche simili, soprattutto per il numero: in Bangladesh, Paese con oltre 160 milioni di abitanti, i cattolici sono meno di 400mila (circa lo 0,3%); in Myanmar, su una popolazione di 50 milioni, i cattolici sono circa 600mila (poco più dell’1%). In entrambi i Paesi i fedeli appartengono soprattutto alle minoranze etniche, spesso emarginate dalle maggioranze bangladeshi e musulmane, o birmane e buddiste. Ma in entrambi i casi la Chiesa cattolica sta dando un contributo essenziale allo sviluppo dei due Paesi, in forte crescita, pur con gli scossoni provocati dal terrorismo islamico a Dhaka e dalle guerriglie con le minorane etniche in Myanmar.

Un problema comune è quello della minoranza Rohingya: migranti di origine bengalese che vivono in Myanmar senza diritto di cittadinanza. Da alcuni anni gruppi nazionalisti, con scontri e violenze, cercano di ricacciarli in Bangladesh, ma le autorità di Dhaka si rifiutano di accoglierli. Nei giorni scorsi gruppi armati di Rohingya hanno assaltato alcuni militari e poliziotti. In risposta l’esercito ha cacciato centinaia di Rohingya in Bangladesh, ma la polizia di frontiera del Paese li ha ricacciati indietro, sotto il fuoco dei militari birmani. Diverse decine sono stati uccisi.

Proprio ieri papa Francesco ha lanciato un appello contro la “persecuzione” della minoranza. Dopo aver ricordato le vittime delle alluvioni in Bangladesh e India del sud, egli ha detto: “Sono arrivate tristi notizie sulla persecuzione della minoranza religiosa i nostri fratelli Rohingya. Vorrei esprimere tutta la mia vicinanza a loro; e tutti noi chiediamo al Signore di salvarli e suscitare uomini e donne di buona volontà in loro aiuto, che diano loro i pieni diritti. Preghiamo anche per i fratelli Rohingya” e ha fatto una pausa di silenzio.

"Successo" Drastica riduzione di migranti in agosto. Ma qual'è la sorte dei 700mila "bloccati" in Libia?

Corriere della Sera
Un gigantesco imbuto: questo sta diventando la Libia per i migranti in arrivo dall’Africa. Lo confermano i numeri sempre più risicati degli sbarchi in Italia, ne parlano le autorità di Tripoli, i media locali, i responsabili della guardia costiera che fa capo al governo di Fayez Sarraj. Ora imperativo è cercare di capire cosa avverrà dei respinti e di chi invece non riesce a partire.




Tra loro chi è stato catturato e riportato sulla costa con le motovedette, comprese le quattro consegnate dall’Italia in giugno alla Guardia costiera libica. «Sono oltre 14.500 in tre mesi. Li abbiamo presi durante i nostri pattugliamenti notturni entro le dodici miglia delle acque territoriali. 

La grande maggioranza al largo dei porti di Sabratha, Zawia e Zuwara», spiega Massud Abdel Samat, ufficiale chiave tra gli operativi dei guardia coste di Tripoli. «Noi li prendiamo. Li consegniamo alla polizia che dalle spiagge li porta in una decina di campi di transito per il riconoscimento, poi vengono trasferiti in campi permanenti», precisa.

A loro si aggiungono le decine di migliaia in attesa da mesi a ridosso delle spiagge della Libia occidentale nel tentativo di racimolare circa 1.000 euro a testa necessari a pagare gli scafisti. E qui sta la grande incognita: quanti sono veramente? «La cifra esatta resta un rebus», dicono al ministero degli Interni. 

Un mese e mezzo fa all’ufficio stampa di Tripoli che si occupa della gestione dei campi profughi ci avevano dato alcuni dati parziali per una decina di siti che si aggirava sulle 100 mila persone, per lo più uomini giovani provenienti da Ciad, Sudan, Niger, Nigeria, Mali, Eritrea. Ma il dato è incompleto. Per esempio non comprende la zona di Misurata e neppure Garabulli. Anche il quadro della regione di Sabratha, vero cuore pulsante del traffico e delle grandi bande criminali, resta complicato. Ci sono inoltre le lunghe colonne di disperati in marcia dai confini meridionali. Circa 1.000 chilometri di deserto che vengono percorsi in periodi che variano in media dalle tre settimane al mese. I servizi d’informazione e i circoli diplomatici occidentali due mesi fa parlavano di «circa un milione di migranti» presenti nel Paese. Adesso pare che la cifra sia scesa a 6-700 mila. Alcuni cercano di tornare ai luoghi di origine. Ma sono pochissimi. La grande maggioranza è bloccata.

La novità rilevante sono però gli accordi e le intese raggiunte negli ultimi mesi tra il governo italiano, con il ruolo centrale del ministro degli Interni Marco Minniti, e quattordici tra sindaci e leader locali distribuiti lungo le rotte migratorie in Libia. 

Gli ultimi colloqui diretti a Roma e Tripoli hanno visto personaggi influenti quali i sindaci di Sabratha, Zuwara, Bani Walid, Sebha, Ghat. Si tratta di località fondamentali, sia sulla costa ma soprattutto nel cuore del deserto del Fezzan, dove lo stesso governo di Tripoli ha pochissima, se non nessuna, influenza. «Il fatto nuovo è che sulla costa arriva molta meno gente. Il deterrente funziona. 

E’ un grande successo: la Libia non è più appetibile come trampolino di partenza per l’Italia. Stiamo rilevando che la migrazione viene ora fermata già nel deserto. Il lavoro dunque si fa per mare. Ma anche tanto su terra», ci dice ancora Abdel Samat. Nell’entroterra e sulle spiagge nuove unità armate (la stampa parla per esempio della «Brigata 48» a Sabratha) oggi danno la caccia ai barconi pronti a partire. Una situazione che ha come conseguenza diretta la diminuzione degli scontri a fuoco tra scafisti e motovedette libiche. 

L’ultimo pare sia avvenuto al largo di Sabratha ai primi di luglio. Oggi tuttavia la marina di Tripoli chiede ancora all’Italia mitragliatrici pesanti modello Breda da montare sulle motovedette. Una richiesta che però contraddice le risoluzioni Onu che vietano di inviare armi in Libia.

Lorenzo Cremonesi


Guerre dimenticate: Afghanistan - Attentato a Kabul con 20 morti tra cui molti bambini

Globalist
Un kamikaze dello Stato Islamico si è fatto esplodere davanti alla moschea sciita


L'ennesima strage in un giorno di preghiera: è di almeno 20 morti e oltre 35 feriti l'ultimo bilancio dell'attacco di un commando dell'Isis a una moschea sciita di Kabul. Lo riferisce la tv Tolo citando il ministero della Sanità afghano. Secondo la polizia l'attacco è terminato e sarebbero morti anche quattro terroristi.

A seguito dell'attacco, almeno undici feriti sono stati ricevuti oggi dall'ospedale di Emergency dove «sono state attivate le procedure di mass casualty in attesa di capire se ne arriveranno altri».

In un comunicato Dejan Panic, coordinatore del Programma Afghanistan di Emergency, ha sottolineato che «Kabul è una città estremamente insicura». «Ogni giorno - ha ancora detto - riceviamo feriti: da pallottola o per un'esplosione, poco conta. Ogni giorno sappiamo che qualcuno in città pagherà il prezzo per questa guerra insensata. Questa città, questo Paese non hanno pace».


Malgrado la presenza del governo e delle rappresentanze internazionali, si dice ancora, Kabul continua a essere la città che ha registrato più vittime, a causa soprattutto degli attacchi suicidi: nel primo semestre del 2017 sono state 986 tra morti o feriti, con un incremento del 59% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
«Nonostante le condizioni del Paese peggiorino di giorno in giorno e nonostante diverse rappresentanze diplomatiche europee abbiano deciso di lasciare il Paese per ragioni di sicurezza - aggiunge Emergency - l'Unione Europea (Ue) continua nella sua decisione di rimpatriare gli afgani».

domenica 27 agosto 2017

Il Brasile vende l’Amazzonia ai cercatori d’oro. Sarà disastro ambientale

Remocontro
Via libera del governo Temer alle trivelle nell’area protetta di Renca: «Faremo ripartire il Paese». Gli ambientalisti: «Sarà una catastrofe».
Secondo i dati dell’Istituto di ricerca sull’Ambiente brasiliano, tra agosto 2015 e luglio 2016 sono andati perduti circa 8000 chilometri quadri di foresta Amazzonica.
La corsa all’oro.


Un’immensa riserva naturale dell’Amazzonia grande quanto Lombardia e Piemonte assieme, si prepara a diventare nuova terra di conquista dei cercatori d’oro. Un angolo della foresta all’estremo nord del Paese, non lontano dalla foce del Rio delle Amazzoni, un’enorme area di 46.000 chilometri quadrati smetterà, dopo oltre trent’anni, di essere protetta e viene aperta allo sfruttamento minerario. Il via libera dal presidente brasiliano Michel Temer, che ha abolito la National Reserve de la Renca, aprendo alle trivellazioni in un’area ricca di minerali e metalli preziosi.

«Attrarre investimenti nel Paese e a creare nuovi posti di lavoro, nel rispetto della sostenibilità ambientale», prova convincere il ministero per l’Estrazione e l’Energia, precisando che nove aree della riserva, incluse quelle abitate dalle popolazioni indigene, «continueranno ad essere tutelate».
«Questo decreto è il più forte attacco all’Amazzonia degli ultimi 50 anni», accusa il senatore Randolfe Rodrigues, eletto nella regione. «Nemmeno la Transamazzonica [strada costruita negli anni 70, ndr] è stata così offensiva, nessuno immaginava che il governo Temer potesse osare tanto».

L’ira degli ambientalisti
Secondo un recente rapporto del Wwf, la principale area di interesse per l’estrazione di rame e di oro si trova proprio in una delle aree protette, la Riserva Biologica di Maicuru, «popolata da comunità indigene di varie etnie che vivono in isolamento», e una corsa all’oro nella regione potrebbe «creare danni irreversibili a queste culture».
Secondo i dati dell’Inpe, l’Istituto di ricerca sull’Ambiente brasiliano, tra agosto 2015 e luglio 2016 sono andati perduti circa 8000 chilometri quadri di foresta Amazzonica, pari a oltre cinque volte l’area di Londra. Nell’arco di appena dodici mesi il tasso di deforestazione è cresciuto del 29 per cento: per ritrovare cifre simili bisogna tornare al 2008.
Il governo Temer assicura che le trivelle saranno autorizzate ad operare soltanto in un’area pari al 30 per cento dell’ex riserva naturale, la cui superficie totale supera per estensione la Danimarca.

La dittatura ‘ecologica’
Fondata nel 1984 sotto l’allora dittatura militare, la riserva di Renca fu vincolata ad area protetta più per ragioni strategiche che ambientali, perché restasse nell’orbita dello Stato. Da allora le pressioni delle società minerarie, da ogni parte del mondo, non si sono mai fermate. Secondo gli esperti, si tratta di una delle aree più ricche di minerali del continente sud americano. Con il governo Temer la concessione è arrivata. Presidente mai eletto, Temer, succeduto a Dilma Rousseff dopo la discussa cacciata della presidente, agisce con grande spregiudicatezza. Anche per lui guai giudiziari, una pesante accusa di corruzione in una inchiesta che ha già portato in carcere dirigenti statali e delle principali multinazionali brasiliane del settore petrolifero, quindi ha fretta. Mentre la magistratura cerca di contenere la frana corruttiva che travolge il Brasile, Temer annuncia di voler dare il via libera alle trivellazioni di compagnie nazionali e straniere in ben 20.000 siti minerari distribuiti in 400 parchi nazionali.

Lula da Silva e Dilma Rousseff
«Lula da Silva e Dilma Rousseff erano molto più attenti a salvaguardare il nostro patrimonio naturale», lamentano gli attivisti del partito dei Lavoratori finito dell’opposizione dopo la caduta dei due suoi ex presidenti e leader. Da quando Michel Temer, al potere con una alleanza di destra dopo l’impeachment di Dilma Rousseff nell’agosto 2016 , ha superato l’ostacolo di un voto di autorizzazione a procedere del Parlamento per accuse di corruzione, il governo ha premuto l’acceleratore in una serie di misure sociali ed economiche tutte gradite agli imprenditori e ai mercati finanziari, come le riforme del lavoro e della previdenza, e una nuova ondata di privatizzazioni.
Insieme all’apertura della riserva amazzonica, Temer ha annunciato difatti la vendita di azioni della Eletrobras, l’Enel brasiliana, e la cessione ai privati di strade e aeroporti.

Myanmar, esercito spara con i mortai sui civili Rohingya in fuga: cento morti

Corriere della Sera
Centinaia di civili terrorizzati in fuga dai villaggi abitati dalla minoranza musulmana dei Rohingya sono stati attaccati con mortai e mitragliatrici dall’esercito birmano al confine di Ghundhum. Lo ha riferito un giornalista della France Presse.



“Hanno sparato su donne e bambini che avevano trovato riparo dietro le colline vicino alla linea di confine, e lo hanno fatto improvvisamente con mortai e mitragliatrici senza avvisare nemmeno noi”, ha dichiarato alla France Presse il responsabile locale delle Guardie di Frontiera del Bangladesh, Manzurul Hassan.
irca duemila persone sono ammassate da venerdì 25 agosto al confine con il Bangladesh a causa dei combattimenti in corso nello stato di Rakhine, nel nord del paese, dove attacchi coordinati a 24 postazioni della polizia di frontiera da parte di militanti Rohingya armati hanno causato finora 92 morti. È la più grave esplosione di violenza dallo scorso ottobre nell’area, quando un simile attacco su scala più ridotta portò l’esercito birmano a lanciare operazioni di rastrellamento nell’area. 

Proprio venerdì 25 agosto, una commissione nominata dal governo e guidata dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan aveva pubblicato il suo rapporto sul Rakhine, raccomandando misure di sviluppo economico e di giustizia sociale per ridurre l’animosità tra la comunità buddista e quella musulmana.
L’esercito birmano è accusato di violazioni dei diritti umani su larga scala, con decine di morti, oltre mille case date alle fiamme e 87 mila Rohingya fuggiti in Bangladesh dallo scorso ottobre, come menzionato in un rapporto Onu, realizzato intervistando tali profughi. 

La Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi è stata pesantemente criticata dalla comunità internazionale per i suoi silenzi su tali abusi.
Considerati come stranieri nello loro stessa patria, al 90% buddista, i Rohingya vivono come dei paria. Non hanno accesso al mercato del lavoro, alle scuole, agli ospedali e il crescente nazionalismo buddista ne ha peggiorato le condizioni di vita.

Monica Ricci Sargentini

Trump concede la grazia a Joe Arpaio, lo sceriffo anti-immigrati. Critiche dallo speaker della Camera Ryan

Corriere della Sera
Una decisione che promette polemiche. L’amministrazione, intanto, perde un altro pezzo: lascia l’incarico il vice assistente Gorka esperto in antiterrorismo e sicurezza.

Donald Trump ha concesso la grazia all’ex sceriffo anti-immigrati dell’Arizona Joe Arpaio, che era stato condannato per aver preso di mira nei suoi controlli i clandestini. La notizia viene confermata dalla Casa Bianca. 

Una decisione in questo senso era attesa ma il presidente Usa aveva rimandato l’annuncio, nei giorni scorso, per evitare polemiche. Arpaio è infatti un sostenitore delle prima ora del presidente e secondo quanto scritto dal Washington Post Trump chiese la scorsa primavera all’attorney general Jeff Sessions se il governo poteva lasciar cadere il processo a carico dell’ex sceriffo Joe Arpaio, suo fervido sostenitore durante la campagna elettorale e partner nella crociata contro l’immigrazione illegale. Ma al presidente fu risposto che sarebbe stato inappropriato. Il tycoon decise quindi di lasciar proseguire il procedimento e di garantire la grazia in caso di condanna.
Lo sceriffo più duro d’America
«Sono lieto di comunicare che ho appena concesso la grazia all'85enne sceriffo patriota Joe Arpaio. Ha reso l'Arizona più sicura» ha scritto Trump su Twitter. Arpaio, che si autodefiniva «lo sceriffo più duro d’America» era stato riconosciuto colpevole di aver ignorato l’ordinanza di un giudice e accusato di violazione dei diritti civili e discriminazione razziale verso la comunità dei latinos. Della «caccia ai clandestini» lo sceriffo di Maricopa (Arizona) aveva fatto una vera e propria bandiera.

I ringraziamenti di Arpaio
Nella giornata di sabato arriva anche il ringraziamento dell’ex controverso sceriffo dell’Arizona per la clemenza ricevuta ieri e per «considerare la mia condanna per quello che è: una caccia alle streghe politica da parte dei superstiti al dipartimento giustizia di Obama!». «Sono commosso e incredibilmente grato al presidente Trump: non vedo l’ora di mettermi dietro le spalle questo capitolo e aiutare #Maga (`Make America great again, ndr)´», ha aggiunto su Twitter Arpaio.

L’amministrazione perde un altro pezzo
E se la decisione di graziare Arpaio promette di scatenare critiche, qualche polemica potrebbe arrivare anche dopo le dimissioni di Sebastian Gorka, vice assistente del presidente esperto in questioni di sicurezza e anti terrorismo. L’amministrazione Trump perde dunque un altro pezzo.

Speaker della Camera polemico
Duro il commento di Paul Ryan, speaker della Camera. «Non è d’accordo con la decisione. I dirigenti delle forze dell’ordine hanno una speciale responsabilità nel rispettare i diritti di tutti in Usa. Non dobbiamo consentire a nessuno di credere che tale responsabilità sia ridotta da questa grazia», ha riferito Doug Andres, portavoce di Ryan.

sabato 26 agosto 2017

Sant'Egidio. Barcellona, dai giovani di tutta Europa un appello per la pace

Avvenire
Nella città ferita dall'attentato sulla Rambla il settimo incontro internazionale dei Giovani per la pace. I fiori per le vittime, l'appello alla pace. Domenica le conclusioni di Marco Impagliazzo.


“Dopo l’orrore degli attacchi terroristici in Barcellona noi vogliamo mostrare la nostra volontà di pace e il nostro impegno per lavorare alla costruzione di una società di coesistenza”. L’appello alla pace dei giovani della Comunità di Sant’Egidio risuona in tante lingue diverse, forte e commovente, oggi sulla Rambla, accanto i fiori, ai lumini e ai peluche che ricoprono i punti dove sono cadute 15 vittime nell’attentato terroristico del 17 agosto.

Sono 500, sono giovani e forti e determinati a non cedere alle ragioni del male i ragazzi provenienti da tutta Europa che si sono radunati a Barcellona, la città ferita dall’attentato del 17 agosto, per il settimo incontro internazionale dei Giovani per la Pace Europei. 

L’incontro del movimento dei giovani della Comunità di Sant’Egidio presente in Europa e in altri continenti, dopo Cracovia, Roma, Berlino, Anversa e Parigi si è aperto oggi presso il Museo del Mare di Barcellona per una tre giorni di incontri, riflessioni, scambi e visite anche nei luoghi più poveri e svantaggiati della città catalana. 


A chiudere domenica l’incontro con il presidente della Comunità Marco Impagliazzo e la preghiera della sera. Il tema è “More Youth, More Peace” (Più giovani, più pace) e vedrà a confronto ragazzi che tutto l’anno si occupano di costruire “quotidianamente” la pace operando a favore dei bambini dei quartieri più svantaggiati, degli anziani, dei senza tetto e dei rifugiati.

I ragazzi di Sant’Egidio hanno deciso di lanciare un forte messaggio di pace proprio dalla città ferita dagli attentati. Oggi dalle 18 i giovani hanno sfilato in silenzio sulla Rambla, dal mare sino al punto dove il mezzo degli attentatori ha terminato la sua folle corsa, depositando lì 15 bouquet di fiori, uno per ogni vittima, portati da 15 ragazzi di nazionalità diverse leggendo poi il loro manifesto per la pace dedicato le vittime degli attentati di Barcellona e Cambrils.

“Ancora una volta abbiamo scelto il dialogo e la solidarietà con i più poveri e i più deboli della nostra società per costruire un futuro di pace e di coesistenza in Europa e nel mondo – dicono fieri e pieni di speranza – Noi siamo convinti che solo il dialogo e l’integrazione aprono la via alla pace. Noi vogliamo sconfiggere il male col bene, far trionfare il perdono sulla vendetta. Per questo noi vogliamo contribuire attivamente a creare un’Europa dove tutti possano vivere insieme: un mondo senza razzismo”.

Al termine dell'appello per la pace è seguito un invito a scambiare un gesto di pace. I ragazzi e la gente comune sulla Rambla hanno cominciato ad abbracciarsi e a stringersi le mani, augurandosi "pace".

Un messaggio che verrà portato domani, sabato, dai 500 giovani che, guidati dal presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo e dai rappresentanti della Comunità in Spagna, si uniranno a partire dalle 18 alla grande manifestazione contro il terrorismo organizzata dalla Città di Barcellona e dalla Generalitat, presente anche il re Felipe VI di Spagna.

Angela Calvini

venerdì 25 agosto 2017

Siria: allarme Amnesty per migliaia civili intrappolati

AnsaMed
Migliaia di civili sono intrappolati a Raqqa, sotto il fuoco di tutte le parti in conflitto, e "centinaia" sono stati uccisi o feriti, anche dai bombardamenti della Coalizione internazionale a guida Usa che appoggia l'avanzata delle forze a predominanza curda per strappare all'Isis la sua 'capitale' siriana. 


Lo afferma Amnesty International in un rapporto basato su testimonianze dei sopravvissuti che sono riusciti a fuggire.
Secondo stime dell'Onu, sono tra i 10.000 e i 50.000 i civili ancora intrappolati in città, che dall'inizio di giugno è investita dall'offensiva delle cosiddette Forze democratiche siriane (Sdf), a maggioranza curda.
Sopravvissuti e testimoni hanno detto ad Amnesty che i miliziani dell'Isis usano trappole esplosive e cecchini per fermare chiunque tenti di fuggire dalla città, mentre continuano gli incessanti bombardamenti di artiglieria e aerei della Coalizione internazionale. 

Allo stesso tempo, altri testimoni parlano di bombardamenti compiuti dalle forze governative siriane, sostenute dalla Russia, a sud dell'Eufrate, anche con l'impiego di bombe a grappolo vietate dalle normative internazionali.

"Migliaia di civili - ha affermato Donatella Rovera, senior adviser per la risposta alle crisi di Amnesty International - sono intrappolati in un labirinto mortale dove sono sotto il fuoco di tutte le parti. Sapendo che l'Isis usa i civili come scudi umani, le Sdf e le forze Usa devono raddoppiare gli sforzi per proteggere i civili, soprattutto evitando di effettuare attacchi sproporzionati e indiscriminati e creando vie di fuga sicure".

Vaticano accoglierà i rifugiati sfollati: “Sgomberi non sono la risposta. Rifiuti restano in strada, rimossi donne e bimbi”

Il Fatto Quotidiano
Lo conferma a IlFattoQuotidiano.it monsignor Paolo Lojudice, vescovo ausiliare di Roma e delegato Migrantes della Conferenza Episcopale del Lazio: "E' arrivato il momento di stabilire politiche di convivenza pacifiche per una integrazione reale. Servono politiche di convivenza pacifiche"

La diocesi del Papa è pronta ad accogliere i rifugiati sgomberati oggi nella Capitale. La conferma a IlFattoQuotidiano.it è arrivata al termine di una giornata che ha visto violenti scontri dei migranti con le forze dell’ordine. A pochi giorni dal messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato che sarà celebrata nel 2018, arriva un impegno concreto da parte delle istituzioni ecclesiali.

Per monsignor Paolo Lojudice, vescovo ausiliare di Roma e delegato Migrantes della Conferenza Episcopale del Lazio, 
“è arrivato il momento di stabilire politiche di convivenza pacifiche per una integrazione reale. Gli sgomberi, come quello di oggi, non sono certamente una risposta adeguata”. 
Il presule, da sempre vicino ai migranti e ai rom, è stato presente allo sgombero di rifugiati eritrei ed etiopici in piazza Indipendenza a Roma.
“Sono seriamente preoccupato – prosegue Lojudice – per quanto avvenuto che non porta però a nulla senza risposte concrete e capillari in tutta la città. Da qui, come detto anche da altri esponenti del mondo cattolico, c’è bisogno di una risposta progettuale e strutturale. Per questo siamo disponibili a partecipare a incontri di programmazione con le istituzioni competenti e con chi ha veramente a cuore questi problemi per trovare vere e proprie soluzioni per garantire un futuro diverso a questi uomini, donne e bambini che hanno solo la colpa di essere fuggiti da realtà di guerra e povertà nella speranza un futuro diverso”.
Lojudice non fa sconti a nessuno: 
“Possiamo chiamarla la ‘città degli sgomberi’: sì, la città ‘eterna’, la ‘Roma Capitale’ si è trasformata in una città che fa ‘piazza pulita’, dove, nel cuore dell’estate, con i terremoti che incombono e con gli attentati che ci fanno aver paura, devono emergere il diritto e la giustizia a scapito di altro. Magari l’immondizia, quella vera, resta per le strade, ma le persone, famiglie intere con donne e bambini vanno rimosse. Due sgomberi in pochi giorni, – sottolinea ancora il presule – in due punti della nostra città, uno a via Quintavalle a Cinecittà, e uno a via Curtatone, a due passi dalla Stazione Termini: due sgomberi che hanno provocato degli accampamenti: uno, direi molto originale, nel portico della basilica dei Santi Apostoli e uno nei giardini di piazza dell’Indipendenza”.
Il vescovo ausiliare di Roma tiene a precisare anche 
“l’inadeguatezza del termine ‘sgombero’, usato per macerie e rifiuti e non adatto alle persone. Stiamo rivelando il vero volto delle nostre intenzioni: liberarci di qualcosa, o forse di qualcuno. Ma è pura illusione: quelle persone esistono, sono vive, in carne e ossa, respirano, mangiano: sono come noi, come me come tutti. L’unica differenza è che sono nate nel posto sbagliato, sono cresciute nel posto sbagliato e, purtroppo, non vorrei dirlo, sono ‘arrivate’ nel posto sbagliato. Mi piacerebbe pensare che sono arrivate nel posto giusto”.
Da queste considerazioni nasce la domanda di Lojudice: 
“Perché non immaginare di accogliere, proteggere, promuovere, integrare, come ha recentemente proposto Papa Francesco, migranti, rifugiati e chiunque si trova in una situazione di marginalità, italiani compresi? ‘Abbiamo già tanti problemi noi italiani! Non riusciamo a trovare lavoro e occupazioni decenti noi…’. Questi sono i discorsi che si propongono, dietro i quali ci mascheriamo. Se è vero che oggi la guerra è globale, perché non pensare di rendere globale anche la solidarietà?”.
Per il presule 
“non si tratta di favorire alcuni a scapito di altri ma di combattere insieme, uniti dal comune ideale di costruire realmente e concretamente un mondo migliore, quello che nel linguaggio della fede chiamiamo il ‘Regno di Dio’, che è ‘già’ ma ‘non ancora’. Si sente dire che in mezzo a queste persone ce ne sono alcune che strumentalizzano, che approfittano di situazioni per propri interessi, i ‘professionisti dell’occupazione’, come vengono chiamati e viene rimproverato a noi uomini di Chiesa di difendere persone che non hanno nessun diritto e nessun bisogno, a volte veri e propri delinquenti. Ma in mezzo ci sono anche anziani, bambini, donne la cui unica professione è quella di essere mamme. Ecco perché non possiamo non stare dalla parte dei più piccoli, dei più deboli: perché ce ne sono, e sono anche tanti. E noi non possiamo non stare dalla loro parte”.
Lojudice sottolinea, inoltre, che 
“il Comune solitamente propone accoglienze per mamme e bambini: perché non cominciare a pensare a delle accoglienze vere per tutta la famiglia? Ci sono delle esperienze in atto: basta riproporle. E non si dica che è un problema di costi: purtroppo costano molto di più le case famiglia, in alcuni casi indispensabili, che non altri luoghi di accoglienza più autonoma per l’intero nucleo. Non servono guerre, né polemiche con le Amministrazioni pubbliche, né tantomeno con le forze dell’ordine, che fanno solo il loro dovere di obbedire a dei comandi. Né guerre né polemiche risolvono problemi: serve un dialogo serio e serrato da parte di tutte le forze in campo, istituzionali e non, volontariato e terzo settore”.
L’appello del presule è chiaro: 
“Ognuno faccia la sua parte e chi non vuole dialogare si ritiri in disparte. Troppa sofferenza è già stata vissuta da chi non ne aveva e non ne ha nessuna colpa. Non ci può essere un dominatore e un dominato, chi comanda e chi è costretto a subire: le conquiste di civiltà del nostro tempo, anche se subiscono attacchi continui, non possono essere messe in discussione da nessuno. Stabiliamo una convivenza più pacifica, una integrazione più reale, una collaborazione in cui ognuno possa dare il meglio di sé e saremo più sicuri anche dalle violenze e dagli attentati”.
“L’Italia – conclude Lojudice – ancora è stata risparmiata e tutti ci chiediamo il perché: ci auguriamo che lo sia ancora, che non accada anche a noi di dover piangere qualche persona cara. Ma non possiamo affidarci al fatalismo o alla casualità: dobbiamo con responsabilità costruire una fraternità vera che magari metterà in discussione qualche nostro ‘diritto acquisito’, ma ci permetterà di garantire un futuro diverso, migliore ai nostri figli e forse anche ai nostri nipoti”.
Sulla stessa linea la Caritas di Roma, presente allo sgombero avvenuto in piazza Indipendenza con un equipe di operatori, che si è subito attivata concretamente a sostegno dei nuclei più fragili. “Un intervento di questo tipo – sottolineano i vertici della Caritas della Capitale – per l’alto numero delle persone interessate, per la presenza di bambini e nuclei familiari e per la storia di sofferenze e violenze che queste persone hanno subito, richiedeva da tempo interventi sociali mirati e programmati, inseriti in un più vasto programma di iniziative che riguardano gli alloggi popolari e le strutture di accoglienza di emergenza. Purtroppo queste politiche, come hanno dimostrato i fatti di ‘Mafia Capitale’, sono assenti da anni nella nostra città e di questo ne approfittano gruppi e organizzazioni che vivono sulle spalle dei poveri anche nei fenomeni delle occupazioni”.

La Caritas di Roma “chiede l’istituzione di un tavolo permanentepresso la Prefettura, con Comune e Regione, per il monitoraggio e la gestione delle occupazioni. Fenomeni così complessi non possono infatti essere lasciati gestire alla magistratura e alle forze dell’ordine. Occorre prevedere percorsi di integrazione mirati che tengano conto dei nuclei familiari, del livello di istruzione e del percorso migratorio dei singoli. Non bastano pochi mesi nelle strutture di accoglienza perché si possa parlare di accoglienza. Occorre prendere coscienza che il riconoscimento della protezione internazionale a un cittadino straniero non è solo un atto amministrativo, ma un impegno per il nostro Paese ben delineato da Papa Francesco”.

Ricordo di Jerry Essan Masslo morto 28 anni fa di razzismo in Italia

Blog Diritti Umani - Human Rights
L'uccisione a Villa Literno di Jerry Essan Masslo, rifugiato sudafricano, divenne simbolo della violenza razziale nel nostro Paese, tanto da segnare il dibattito politico in corso negli anni '90

Jerry Essan Masslo
Arrivato in Italia nel 1988 dal Sudafrica dove esisteva ancora l'apartheid, Jerry Essan Masslo ebbe riconosciuto lo status di rifugiato solo dalle Nazioni Unite e non dall'Italia (all'epoca era previsto solo per i migranti dell’Europa dell’Est). Dopo essere stato accolto alla Tenda di Abramo, centro della Comunità di Sant'Egidio a Roma, dove frequentò la Scuola di lingua italiana, la mensa della Comunità e la Chiesa battista, Jerry Masllo nell'estate del 1989 andò a Villa Literno per la raccolta dei pomodori. Qui la sera tra il 24 e il 25 agosto, nella casupola abbandonata dove viveva con i suoi amici, si oppose all'aggressione di alcuni giovani che volevano derubarli, e per questo fu sparato e ucciso. 

Il funerale di Jerry Essan Masslo a Villa Literno
"La sua morte sconvolge l'Italia - ricorda Daniela Pompei della Comunità di Sant’Egidio - Per la prima volta i funerali di un nero sono trasmessi dalla Rai: alle esequie sono presenti il vicepresidente del Consiglio dei ministri Claudio Martelli e altre autorità. Le associazioni e i sindacati si mobilitano. Nell’ottobre del 1989 si svolge a Roma la prima grande manifestazione antirazzista con la partecipazione di oltre 150 mila persone. Questo anniversario si colloca nei giorni in cui si dibatte se continuare o meno l’operazione Mare Nostrum. La memoria vigile e partecipe di un giovane profugo morto ucciso cinque lustri fa è un atto dovuto a lui e ai tanti che oggi muoiono cercando vita speranza e futuro in Europa. Il volto, il nome, la storia, la morte di Jerry può, oggi come allora, restituire respiro e spessore a un dibattito troppo spesso poco lungimirante e forse troppo animato da egoismi nazionali".  

Dopo la morte di Jerry Masllo la legge Martelli, tra le altre cose, eliminò la clausola geografica e in Italia si poté chiedere asilo provenendo da qualsiasi Paese del mondo. Lunedì sarà ricordato in una Villa Literno profondamente cambiata, dove i lavoratori stagionali convivono pacificamente con la popolazione locale, e i loro bambini frequentano la scuola.

Oggi che l'Europa è meta di tanti uomini, donne e bambini che fuggono da guerra e persecuzioni da tanti angoli della terra, Jerry Masslo con la sua morte contribuì in modo rilevante a cambiare la legislazione italiana nel merito e iniziò a far capire all'opinione pubblica i problemi che si portavano con se i profughi che chiedono ospitalità in terre che vivono nella pace e nella sicurezza.

giovedì 24 agosto 2017

Il poliziotto carezza la donna migrante: un po' di luce nella vergogna di Roma

HuffPost
Uno spiraglio di luce nel buio di Roma. La carezza del poliziotto alla migrante, immortalata dal fotografo Angelo Carconi dell'Ansa, arriva nel pieno degli scontri tra le forze dell'ordine e le centinaia di eritrei ed etiopi sgomberati dal palazzo di via Curtatone, vicino a piazza Indipendenza. 


E restituisce speranza, seppure molto volatile, dopo momenti di tensione e paura. Intervistata da HuffPost, Genet, 40 anni, ha dichiarato: ""Vedete il bello in questa foto, ma ci buttate via come una scarpa vecchia".

La donna piange, impaurita, sicuramente sconfortata dalle scene che si parano davanti ai suoi occhi: il lancio di sassi e bottiglie dalle finestre del palazzo, il roteare dei manganelli, infine gli idranti sulle decine di persone rimaste a dormire in piazza, a pochi passi dalla stazione Termini. Una donna cade a terra e viene soccorsa dagli operatori di Medici senza Frontiere, altre continuano a protestare con le braccia alzate nonostante il getto dell'acqua. Tensione altissima, che viene attutita in parte da questo gesto: la carezza dolce di un poliziotto che segue, da sotto il casco protettivo, lo sguardo della donna, quasi a tranquillizzarla. È una sequenza di tre immagini, che cozzano con le altre, violente, di una guerriglia urbana.

A Roma la polizia ha sgomberato con la forza i rifugiati usando gli idranti

Il Post
Sono stati usati idranti e manganelli per cacciarli da Piazza Indipendenza, dove si erano accampati da alcuni giorni: ci sono 13 feriti.



Stamattina presto a Roma la polizia ha sgomberato con la forza circa 150 migranti – prevalentemente rifugiati e richiedenti asilo, quindi persone che hanno diritto di trovarsi in Italia – che si erano accampati vicino alla stazione Termini dopo essere stati sgomberati da un palazzo di via Curtatone che occupavano da tempo. 

Per sgomberare i migranti la polizia ha usato degli idranti su persone che stavano dormendo o che si erano appena svegliate, e poi alcune le ha caricate e colpite. Medici senza frontiere ha detto di aver curato 13 feriti. La Questura di Roma si è giustificata dicendo che l’intervento è stato necessario perché i rifugiati hanno rifiutato una soluzione offerta loro dal comune di Roma «ma soprattutto per le informazioni di alto rischio pervenute, inerenti il possesso da parte degli occupanti di bombole di gas e bottiglie incendiarie».

Ore dopo le persone sgomberate dalla piazza si sono trasferite in una zona verde vicino alla stazione Termini, ma la polizia le ha cacciate anche da lì. Durante una delle cariche della polizia nei pressi della stazione, si sente un poliziotto dire: «Devono sparire, peggio per loro. Se tirano qualcosa spaccategli un braccio».

Non è chiaro se il comune abbia davvero offerto ai rifugiati una soluzione alternativa, o cosa intenda fare di loro. Le autorità italiane sono formalmente obbligate a occuparsi di queste persone, che hanno ricevuto o richiesto una forma di protezione internazionale. La sindaca Virginia Raggi non ha ancora commentato la questione.

Messico - Ucciso Cándido Ríos Vázquez, sono 10 i giornalisti uccisi in 8 mesi


EuroNews
Ancora un giornalista ucciso in Messico. È il decimo nel 2017. La vittima si chiama Cándido Ríos Vázquez, l’uomo è stato freddato a colpi di pistola a Hueyapan de Ocampo, 200 chilometri a sud di Veracruz.

Il giornalista Cándido Ríos Vázquez
Era corrispondente di un giornale locale, seguiva la cronaca nera e godeva di un programma governativo di protezione dei giornalisti.Il giornalista si accompagnava con un ex candidato a sindaco della cittadina, recentemente scosso dall’assassinio di un famigliare. 
Anche quest’uomo è stato ucciso, insieme a una terza persona.

Hilda Martínez, la vedova, dice: “Chiedo che venga fatta giustizia e chiedo che si sappia attraverso le indagini, se si tratta di qualcosa di personale o no. Bisogna sapere che Gaspar Gomez Jemenez lo minacciava sempre di morte. Voglio anch’io protezione per me stessa, perché non uccidano anche me”. 

Gaspar Gomez Jemenez è l’ex sindaco di Hueyapan de Ocampo che più volte il giornalista aveva denunciato per minacce di morte; che ci sia un nesso tra le denunce penali e l’assassinio del giornalista, è oggetto d’indagine.

mercoledì 23 agosto 2017

Guerre dimenticate - Yemen, raid della coalizione saudita su Sana’a: uccise decine di civili

DIRE
Decine di civili sono stati uccisi il 23 agosto in bombardamenti aerei condotti dalla coalizione a guida saudita su Sana’a, la capitale dello Yemen: lo riferiscono fonti di stampa e responsabili di organizzazioni umanitarie.


Secondo Hussein Al Tawil, capo della Mezzaluna Rossa in città, almeno 35 persone hanno perso la vita in un bombardamento nel sobborgo settentrionale di Arhab.

Altre fonti, vicine alle milizie sciite che controllano la città, hanno fornito bilanci ancora più gravi.

Secondo l’agenzia di stampa ‘Saba’, in particolare, i raid hanno provocato almeno 71 morti e feriti.

Le milizie sciite, appartenenti al movimento Houthi, si oppongono a un governo sostenuto dai sauditi che controlla dal 2015 solo le regioni meridionali dello Yemen.

USA - Missouri - Pena di morte - Stop a esecuzione di Marcellus Williams. Dubbi dal test DNA

Rai News
Il governatore repubblicano del Missouri, Eric Greitens, ha fermato l'esecuzione della pena di morte per il condannato Marcellus Williams, dopo che risultati del test del Dna hanno sollevato dubbi sulla sua colpevolezza. 

Marcellus Williams
Williams è stato condannato per aver ucciso a coltellate la ex giornalista Lisha Gayle durante una rapina nel 1998.

L'esecuzione della massima pena era fissata per ieri sera. I legali di Williams avevano prodotto prove legate a un test del Dna sull'arma del delitto non associabili al condannato.

Roma, rifugiati in strada. Padre Zerai: "Casi vulnerabili, serve una soluzione"

Redattore Sociale
Seconda notte in strada per gli sgomberati di via Curtatone: circa 200, di cui 50 donne, hanno dormito all’addiaccio. Una delegazione ha incontrato in Campidoglio il gabinetto del sindaco insieme al sacerdote eritreo. Lo sdegno di Unhcr, Sant’Egidio,Unicef : “Sono persone che hanno bisogno di protezione”.


Roma - Tadesse si tira su con la stampella e si tocca la schiena: per la seconda notte ha dormito per terra nei giardini di piazza Indipendenza. “Non so quanto potrò andare avanti ancora – dice -. Ho subito tre operazioni, ho sei ferri solo in questa gamba, il dolore alla schiena non mi dà pace. Sono invalido al 70 per cento dentro almeno avevo un letto, qui non è possibile stare”. Tadesse, mi mostra il permesso di soggiorno, dove c’è scritto che ha ottenuto l’asilo politico. Viene dall’Etiopia, ed è una delle persone sgomberate dal palazzo di via Curtatone, a piazza Indipendenza, nel cuore di Roma, sabato scorso. 

Ora, insieme ad altre 150 persone, ogni notte dorme in strada, di fronte al palazzo che negli ultimi 4 anni è stata la sua casa. I rifugiati etiopi ed eritrei hanno infatti deciso di non lasciare piazza Indipendenza con la speranza di poter rientrare nel palazzo della ex Federconsorzi, dove attualmente ci sono altre 100 persone (70 adulti e 35 bambini): solo alle famiglie con minori, infatti, è stato concesso di rientrare temporaneamente nello stabile.

Padre Zerai in Campidoglio per chiedere all’amministrazione di attivarsi: “Sgombero senza piano B”. Questa mattina una delegazione formata da tre ragazzi eritrei e da padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo, presidente dell’agenzia Habescia, si è recata in Comune per chiedere all’amministrazione di trovare una soluzione per le persone in strada. L’assessora Laura Baldassare e la sindaca, Virginia Raggi, non c’erano. “Abbiamo incontrato una rappresentanza del gabinetto del sindaco e lo staff dell'assessorato alla Persona, Scuola e Comunità solidale – spiega a Redattore sociale il sacerdote eritreo -. Ci hanno dato disponibilità a venire oggi pomeriggio a piazza Indipendenza, per fare un censimento dei casi più vulnerabili: famiglie, minori, ma anche anziani e persone con problemi di salute. Ci sono diversi invalidi”. Secondo padre Zerai è escluso che le persone possano rientrare nell’edificio, costantemente presidiato da polizia e vigilantes privati. “Stiamo cercando anche di farci dare un appuntamento dalla prefetta di Roma. Si tratta di persone che hanno l’asilo politico o addirittura la carta di soggiorno, persone cioè già fuoriuscite dai percorsi di accoglienza, che non possono essere ora ospitati di nuovo nei centri per migranti o negli Sprar – continua Zerai -. Per questo non credo che il Comune potrà fare granché, andrebbe attivata la protezione civile nazionale per tamponare almeno l’emergenza di questi giorni. Questo lo può fare solo ministero o il governo stesso”. Dopo l'incontro il Comune di Roma, in una nota, ha fatto sapere che verrà avviato un "tavolo di confronto permanente per individuare le soluzioni più adeguate per le persone che occupavano l'immobile situato in via Curtatone, garantendo assoluta priorità alle fragilità: famiglie con minori, anziani non autosufficienti e disabili".

Padre Zerai, da sempre al fianco dei connazionali in Italia ricorda che l’occupazione di via Curtatone è nata a ottobre 2013, subito dopo la strage di Lampedusa dove persero la vita 368 persone. “Questa occupazione rappresenta il fallimento del sistema accoglienza: da una parte lo Stato si assume la responsabilità di proteggere queste persone, dall’altra le lascia in mezzo alla strada. Invece di preparare un percorso di inserimento per questi rifugiati, che sulla carta sono stati dichiarati bisognosi di accoglienza e protezione, vengono lasciano soli. Sappiamo che l’ordine è arrivato dalla prefettura, ma non si può sgomberare senza un piano B. Ci sono famiglie con bambini che vanno a scuola, non possono essere sradicati dal loro territorio”.

Anche l’Alto commissariato Onu per i rifugiati sta monitorando la situazione dal giorno dello sgombero. “La notte ci sono circa 200 persone che dormono in strada, di cui 50 donne – sottolinea Barbara Molinario -. Quello che ci preoccupa non è solo l'assenza di un'alternativa ma anche la mancanza totale di informazione: alcuni non hanno idea di cosa stia succedendo. Noi siamo in contatto diretto con i funzionari delle prefettura e con il Comune, nessuno ci ha parlato di possibili soluzioni alternative”. L’Unhcr in una nota ha espresso “profonda preoccupazione” per la situazione dei rifugiati a Roma, come aveva già fatto dopo il recente sgombero di via Vannina. “Questa situazione si aggiunge a un quadro già problematico – si legge -. sono centinaia le persone in fuga da guerre e persecuzioni, in transito nella città di Roma, attualmente costrette a dormire per terra in assenza di strutture di accoglienza adeguate”. “Mi aspettavo di vedere qui l’assessora Laura Baldassare – sottolinea il prortavoce dell’Unicef Andrea Iacomini, che stamattina si è recato di persona a piazza Indipendenza per capire la situazione di donne e bambini – Non ci basta sapere che siano stati fatti rientrare nello stabile, vogliamo poter capire com’è la situazione lì dentro. Come l’assessora Baldassare ben sa questi minori vanno protetti e gli va assicurato un alloggio adeguato, un piano di accoglienza definito. Sappiamo che hanno provato a separare i nuclei familiari, ma per noi mamma, papà e bambini devono stare insieme”.

Seconda notte in strada “diversi casi vulnerabili”. Intanto ieri sera tra le 150 e le 200 persone hanno passato la seconda notte all’addiaccio. Tra loro anche anziani e persone con probemi di salute. Come Simon, amputato alla gamba destra: “Ho perso l’arto dopo una malattia – racconta – ho problemi seri di postura e forti dolori. Ma non avendo alternativa dormo qui. Mi hanno fatto rientrare solo per prendere le mie cose”. Mentre parliamo una signora anziana si avvicina al cordone di sicurezza “Vi prego fatemi rientrare dentro a dormire” chiede. Il poliziotto gentilmente le dice “non posso, lo farei ma l’ordine è di far rientrare solo famiglie con bambini”. Intanto chi è all’interno butta giù cuscini, lenzuola e materassi per permettere a chi è fuori di dormire meglio. Francesca Danese, ex assessora alle politiche sociali, assicura che il Forum del Terzo settore si sta attivando per cercare soluzioni alternative. Alcuni cittadini hanno messo a disposizione anche la loro abitazione: “ci stanno chiamando in tanti per chiedere come possono essere utili”.

Sdegno unanime delle associazioni. Diverse associazioni, dal Centro Astalli ad Amnesty International hanno condannato lo sgombero del palazzo. La Comunità di Sant’Egidio chiede urgentemente di trovare una soluzione: “Si tratta di centinaia di rifugiati, tra cui molte famiglie con bambini e anziani, che si trovano all’improvviso senza un tetto. Occorre che le autorità nazionali e cittadine trovino al più presto una risposta alla situazione che si è venuta a creare, anche con soluzioni diversificate”. Sant’Egidio ricorda che non si tratta di “irregolari”, “le persone sgomberate, in gran parte etiopi ed eritrei, hanno già ottenuto, quasi tutti, il riconoscimento di rifugiati e non pochi già lavorano, come quella donna che ha chiesto di poter tornare nel palazzo per recuperare le medicine che servivano alla signora che assiste come badante durante il giorno. Si trovino quindi soluzioni appropriate nel rispetto delle persone e per il bene della Capitale che non ha bisogno certamente di situazioni conflittuali ma inclusive, per tutti i cittadini, sia italiani che stranieri". “Da anni, insieme agli altri enti di tutela che operano in città, segnaliamo che è importante agire per risolvere queste situazioni di marginalità e per prevenirne di nuove - aggiunge padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli – . Tuttavia intervenire senza avere pianificato soluzioni adeguate e dignitose per le persone coinvolte non risolve le difficoltà, aumenta la tensione e suggerisce un’impropria associazione tra disagio sociale e allarme terrorismo“. Anche il viceministro agli Affari esteri Mario Giro ha condannato con fermezza lo sgombero su Twitter definendolo “Indegno di un paese civile. Provoca insicurezza ai migranti e ai romani”. 

Eleonora Camilli

martedì 22 agosto 2017

Molti bambini yazidi prigionieri dell'Isis a Tel Afar. L'appello: salvateli

Globalist
Cominciata l'offensiva per liberare la città dal califfato, La deputata yazida Vian Dakhil: molti sottoposti a lavaggio del cervello e costretti a convertirsi


Le torture e le sofferenze per molti yazidi non sono finite: una deputata della minoranza yazida in Iraq, Vian Dakhil, ha fatto appello alle forze irachene che da conducono un'offensiva contro l'Isis a Tel Afar perché pongano particolare attenzione nell'identificare e liberare i membri della comunità sequestrati dallo Stato islamico, specialmente bambini, affermando che probabilmente molti di loro sono ancora tenuti prigionieri proprio a Tel Afar.
L'appello è stato lanciato dopo che una fonte militare ha detto che ieri due ragazze Yazide sono state liberate in un villaggio strappato all'Isis. 

Molti Yazidi furono massacrati e migliaia sequestrati nell'agosto del 2014 dall'Isis, quando gli uomini del 'Califfato' conquistarono la regione di Sinjar, 120 chilometri a ovest di Mosul. Le donne e le ragazze furono in gran parte ridotte a schiave sessuali. 

Secondo fonti della comunità, da allora circa 3.000 Yazidi sono stati liberati. Ma Vian Dakhil afferma che di altri 3.000 non si hanno ancora notizie, e molti potrebbero essere tenuti prigionieri proprio a Tel Afar. 

"Facciamo appello ai comandanti militari iracheni - ha detto la deputata - di cercarli soprattutto tra le famiglie di sfollati che fuggono da Tel Afar. Siamo preoccupati soprattutto per i bambini che sono stati sottoposti ad un lavaggio del cervello e costretti a convertirsi all'Islam e ai quali è stata cambiato il nome".

Antisemitismo - Un ebreo su tre pensa di lasciare la Gran Bretagna

Corriere della Sera
Sono stati 767 gli episodi di anti-semitismo in Gran Bretagna nei primi sei mesi del 2017. Un numero record di attacchi, molestie e abusi, un terzo in più dell’anno prima, che dà la misura del clima in cui vivono gli ebrei britannici. 


La conseguenza è che quasi un terzo degli ebrei inglesi ha pensato negli ultimi due anni di lasciare il Regno Unito secondo quanto ha rivelato un rapporto pubblicato domenica 20 agosto dall’ong dei diritti umani Campaign Against Antisemitism, ripreso da Jta (Jewish Telegrapich Agency), che dal 2015 ha condotto interviste con oltre 10mila ebrei britannici.

“L’antisemitismo sta avendo un impatto crescente sulle vite degli ebrei britannici, l’odio e la rabbia nei loro confronti si sta allargando” ha spiegato all’Independent David Delew presidente del Community Security Trust che monitora gli attacchi antisemiti in Gran Bretagna.

Tra il 2016 e il 2017 sono state intervistate 7,156 persone, il 37% ha risposto inoltre di aver nascosto in pubblico «segni» che li avrebbe fatti individuare come ebrei. Solo il 59% degli intervistati si sente a suo agio in Gran Bretagna e il 17% addirittura pensa di non essere benvenuto. Il 39% del campione ha detto di credere che la giustizia persegua gli autori di attacchi antisemiti. Per il 75% degli intervistati i recenti eventi politici hanno avuto come risultato un’accresciuta ostilità nei confronti degli ebrei. L’80% crede inoltre che il partito laburista abbia persone antisemite al suo interno.

Monica Ricci Sargentini

Venezuela. Mons. Sequera: a Puerto Ayacucho uccisi 37 detenuti, massacro pianificato

agensir.it
"Queste persone sono state massacrate in modo pianificato": lo ha detto mons. Jonny Eduardo Reyes Sequera, vicario apostolico di Puerto Ayacucho (Venezuela), commentando il massacro di mercoledì scorso nel dove sono morte 37 persone durante l'intervento di un'unità antisommossa della polizia venezuelana nel carcere di Puerto Ayacucho, capitale dello stato di Amazonas, nel sud del Paese.


La stampa locale aveva informato che prima dell'intervento armato, un gruppo di detenuti aveva preso il controllo del carcere. "Qui parliamo di una tragedia grave, perché sono vite umane, perché quando si pagano gruppi armati per andare ad ammazzare la gente, è una cosa pianificata", ha ribadito Mons. Reyes, incontrando ieri la stampa locale, come riferito dall'agenzia Fides: "Non si tratta di polli o gatti, sono persone, e neppure sappiamo se sono solo 37. Sentiamo da tutti i telegiornali ciò che è accaduto a Barcellona, ma in Venezuela? Cosa succede veramente qui?".