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mercoledì 31 maggio 2017

Migranti, da Ventimiglia un appello a Macron: «Apra le frontiere ai rifugiati»

Il Secolo XIX
Imperia - Il presidente della commissione parlamentare di inchiesta sul Sistema di Accoglienza, Federico Gelli, in visita al centro del Parco Roja di Ventimiglia, ha fatto appello al presidente francese, Emmanuel Macron, affinché apra le frontiere a quei migranti cui è stato riconosciuto dalle loro condizioni, dalla giustizia italiana o dalle commissioni italiane, lo stato di profugo o rifugiato: 

«Un tema importante è quello della “relocation” - ha detto Gelli - Dobbiamo fare in modo che con il nuovo presidente francese, che su questi argomenti è più sensibile rispetto al passato, dia una mano all’Italia in questo grande impegno di ricollocare i migranti che hanno diritto. Ovviamente l’appello non è solo alla Francia. 

L’impegno siglato dai paesi europei era stato di 50mila “relocation” in un anno, ne abbiamo avute soltanto 5mila, un rapporto di uno a 10. Gli altri Paesi europei devono darsi una mossa rispetto a un tema che non è più solo italiano o greco».
Da Ventimiglia, Gelli ha detto anche che «bisogna che lo Stato sia vicino a questo territorio» e che «occorrono interventi importanti: innanzi tutto per cercare di bloccare il flusso dei migranti verso la Francia. Quindi, non è più accettabile la presenza di migranti sul greto del fiume Roja. Abbiamo visto i cunicoli sotto il cavalcavia e l’autostrada, dove vivono in condizioni igieniche indecenti e pericolose. Bisogna subito togliere i migranti a questa situazione, è necessario risolvere il problema dei minori non accompagnati, delle donne e delle famiglie che non possono continuare a vivere in condizioni precarie nella parrocchia, malgrado la bontà e l’umanità del parroco».

Nell’occasione, il prefetto di Imperia, Silvana Tizzano, ha comunicato a Gelli, l’ipotesi di aprire una nuova struttura ricettiva destinata ai ragazzi tra i 14 e i 18 anni e gestita dalla Croce Rossa: «Per il fiume Roja, sul cui greto sono accampati alcuni migranti, esiste già un piano - ha detto Gelli - ma ci vuole un lavoro di mediazione per allontanare i profughi.

Bisogna, inoltre, rafforzare l’alfabetizzazione e la mediazione culturale, elemento principale per garantire una corretta informazione». Il prefetto di Imperia, il questore e il comandante provinciale dei carabinieri hanno chiesto un incremento delle forze di polizia e di militari per garantire un controllo maggiore del territorio, mentre riguardo il contenimento dei flussi verso la frontiera sono stati invocati maggiori controlli su treni e stazioni.

Marocco: 106.000 arresti nel 2016, nelle carceri sofraffollate con oltre 80.000 detenuti

Nova
Il numero dei detenuti nelle prigioni del Marocco è in costante aumento. Si sono contati quest'anno infatti 106 mila detenuti, per lo più in detenzione provvisoria. 

Il numero di marocchini che perdono la loro libertà è in costante aumento di anno in anno. Nel 2016, il Marocco ha raggiunto un picco record nel mese di dicembre, con una popolazione carceraria di 80 mila detenuti in diverse prigioni.

A riferirlo è il quotidiano marocchino "Al Akhbar Yaoum" sulla base della relazione annuale della delegazione generale per l'amministrazione penitenziaria e la riabilitazione. Quest'anno sono 2.133 i detenuti condannati a pene detentive finali. Tuttavia, 104 mila sono in carcere in attesa di giudizio. Il rapporto affronta anche la spinosa questione del sovraffollamento delle carceri

"Una densità carceraria tale che sta ostacolando gli sforzi per garantire la dignità dei prigionieri, per garantire la loro sicurezza e per stabilire programmi di qualificazione in grado di combattere il fenomeno della recidiva", spiega Mohamed Salem Tamek, delegato generale per la riabilitazione dei carcerati.
Il rapporto, le cui linee principali sono citate da "Akhbar Al Yaoum", ricorda che una prigione nuova è stata aperta nel 2016, mentre il 2015 ha visto l'apertura di 10 carceri. 

La Delegazione generale per l'amministrazione penitenziaria e la riabilitazione prevede di aumentare il ritmo di lavoro per il completamento di nuove carceri a Tangeri, Berkane, Nador e Smara e mira inoltre a lanciare la costruzione di cinque nuove strutture carcerarie a Tan-Tan, Assilah e Oujda.

Tragedia umanitaria in Yemen, epidemia di colera: quasi 500 morti. 1000 casi al giorno.

Radio Vaticana
In Yemen è in corso un’epidemia di colera: in un mese quasi 500 persone hanno perso la vita. Nell’ultima settimana il numero dei casi sospetti è più che raddoppiato: si stima che potranno essere registrati circa 70mila contagiati entro la fine di giugno. Si parla di 1.000 casi al giorno: quasi due su tre sono bambini sotto i 15 anni. 


Giorgio Saracino ne ha parlato con Marco Guadagnino, portavoce di Save The Children:

R. – In Yemen in questo momento è in corso un’epidemia di colera molto grave. Stimiamo che entro il mese di giugno quasi 70 mila persone potrebbero ammalarsi di colera. Le stime che stiamo raccogliendo in questi giorni, quelle che ci vengono fornite dai nostri operatori in Yemen, parlano di quasi mille casi di colera – o meglio, di sospetti casi di colera – al giorno. Grandissima parte di questi casi, purtroppo, fanno riferimento a bambini: è una situazione molto, molto grave e sta peggiorando. Temiamo che possa ulteriormente peggiorare nelle prossime settimane, quando si attende la stagione delle piogge che sicuramente porterà un peggioramento della crisi igienico-sanitaria nel Paese.

D. – A cosa è dovuta questa crescita esponenziale dei contagiati?
R. – Le condizioni igienico-sanitarie del Paese in questi ultimi mesi sono ulteriormente peggiorate. Il 26 maggio di quest’anno abbiamo ricordato il triste, secondo anniversario dell’inizio della guerra. È un Paese in cui grandissima parte delle strutture sanitarie sono state distrutte; abbiamo avuto notizie di strutture sanitarie che sono state private, saccheggiate delle attrezzature più importanti; sono state rubate o colpite ambulanze, le persone hanno difficoltà ad accedere ai servizi sanitari. In più, nel Paese, a causa della guerra e della crisi che sta colpendo tutto il sistema sociale ed economico del Paese, perfino i netturbini sono in sciopero: da settimane, da mesi, non viene più raccolta l’immondizia. Insomma, la crisi è sanitaria e igienica, aggravata dall’impossibilità – o quasi impossibilità – di poter fare arrivare nel Paese aiuti umanitari, nel caso specifico medicinali e attrezzature sanitarie per cercare di contenere l’epidemia.

D. – E come state intervenendo voi di Save the Children sul territorio?
R. – Noi abbiamo un’équipe molto grande di operatori che sta portando - dove possibile - attrezzature mediche, medicinali; stiamo facendo formazione al personale sanitario; stiamo, specificamente per l’epidemia di colera, facendo campagne di sensibilizzazione per la popolazione; stiamo rafforzando, sostenendo centri specifici per il trattamento di colera e delle altre forme di diarrea; stiamo fornendo kit per la reidratazione orale. Purtroppo, anche i dati sulle persone che stanno morendo continuano a essere sempre più alti: parliamo ormai di quasi 500 persone che sono morte soltanto in queste ultime settimane, a causa della nuova epidemia.

D. – Ogni cinque minuti, un bambino sotto i cinque anni muore per cause prevenibili. Qual è l’appello di Save the Children?
R. – L’appello è un appello ovviamente alle parti in conflitto, perché consentano, attraverso una cessazione immediata delle ostilità, l’accesso umanitario alle zone più colpite: che venga consentita la distribuzione di farmaci e medicinali, che vengano riaperti porti e aeroporti per consentire l’arrivo degli aiuti. Chiediamo che dopo 26 mesi di guerra, ci si fermi e si provi a pensare a un accordo di pace che possa essere duraturo. Purtroppo, in questo momento, gli unici accordi di cui abbiamo sentito parlare sono accordi per la vendita di armi: in questo momento, noi abbiamo bisogno di altro.

martedì 30 maggio 2017

Filippine - In fuga migliaia di civili a Marawi sotto attacco dall'Isis

Il 24 Internazionale
L’esercito filippino, dotato di elicotteri e mezzi blindati, si è scontrato con gli islamisti nella città di Marawi, nel Sud del Paese, dove, secondo i media, sono stati uccisi civili. 



Gli islamisti che hanno dichiarato fedeltà allo Stato islamico (Isis) hanno cominciato martedì scorso a saccheggiare la città, spingendo il presidente Rodrigo Duterte a dichiarare la legge marziale in tutta la regione di Mindanao, pari a oltre un terzo del territorio meridionale del Paese dove vive il 20% degli oltre 100 milioni di abitanti dell’arcipelago. 

I combattenti islamici si sono rintanati in edifici residenziali, hanno piazzato bombe artigianali nelle strade e hanno preso in ostaggio diversi cattolici. “La gente ha paura. Gli uffici sono chiusi. Non vogliamo che le persone siano usate come scudi umani”, ha detto il sindaco di Marawi, Majul Usman Gandamra. Secondo un fotografo della France presse, due elicotteri militari sorvolano la città, i blindati si muovono nelle strade dove si sentono raffiche di armi automatiche. Molti dei 200.000 abitanti della città sono fuggiti. Secondo l’esercito, cinque soldati e un poliziotto sono rimasti uccisi negli scontri, costati la vita anche a 13 jihadisti.

Le autorità non hanno riferito di vittime civili, ma la televisione GMA ha diffuso le immagini dei cadaveri di nove persone, apparentemente uccise a colpi di arma da fuoco e tutte con le mani legate. Secondo un testimone, sarebbero state catturate a un posto di controllo e uccise dai jihadisti dopo essere state identificate come cristiane. Scontri sporadici questa mattina fra islamisti del gruppo Maute, che ha giurato fedeltà all’Is, e le forze del governo delle Filippine a Marawi, sull’isola di Mindanao. 

Il presidente Rodrigo Duterte ha imposto la legge marziale ed è tornato in anticipo da Mosca per poter seguire la crisi che ha fatto seguito all’arrivo martedì di un centinaio di islamisti nella cittadina di 200mila abitanti, migliaia dei quali sono fuggiti diretti verso la vicina Iligan.

Unhcr, 410 mila persone fuggite dal Burundi dal 2015

Agenzia Nova
Ginevra - L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha rinnovato oggi la propria preoccupazione per la situazione d’instabilità in cui versa Burundi, dove all'aprile 2015 più di 410 mila persone sono fuggite dalle loro abitazioni a causa della decisione del presidente Pierre Nkurunziza di correre per un terzo mandato. 


Profughi dal Burundi e dal Congo rifugiati in Tanzania
I rifugiati, si legge in una nota dell’Unhcr, continuano a denunciare gli abusi dei diritti umani, le persecuzioni e le violenze sessuali e di genere come le ragioni principali della loro fuga. 

Senza segno di miglioramento della situazione politica, denuncia l’agenzia Onu, la popolazione totale di rifugiati in fuga dal paese dovrebbe superare il mezzo milione entro la fine del 2017, rendendola potenzialmente la terza crisi dei rifugiati in Africa dopo il Sud Sudan e la Repubblica democratica del Congo (Rdc). 

Attualmente la Tanzania ospita la maggioranza dei profughi burundesi (circa 249 mila), seguita dal Ruanda con 84 mila, dall’Uganda con 45 mila e dalla Rdc con 41 mila. 

L'Unhcr ha di recente rivisto al rialzo il suo appello di finanziamento in risposta alla crisi umanitaria in Burundi portandolo a 250 milioni di dollari.

Israele cede, successo per lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi

Il Manifesto
Dopo 40 giorni il digiuno è terminato venerdì notte, dopo ore di trattative tra gli scioperanti, le autorità carcerarie e la Croce Rossa. Israele costretto ad accettare alcune delle richieste presentate dal promotore della protesta, il leader incarcerato di Fatah Marwan Barghouti che emerge ancora più popolare e influente.



Si festeggiava la "vittoria" ieri in piazza Yasser Arafat a Ramallah dove per 40 giorni, sotto la tenda del "presidio permanente", centinaia di persone, in maggioranza giovani, hanno partecipato a dibattiti e incontri a sostegno dello sciopero della fame cominciato lo scorso 17 aprile da 1500 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. 

Il digiuno di protesta è terminato nella notte tra venerdì e sabato, all'inizio del mese di Ramadan, con un accordo tra gli scioperanti, le autorità carcerarie israeliane e la Croce Rossa. Caldo e il digiuno per il Ramadan non hanno impedito alla folla di sostenitori, attivisti e familiari dei detenuti, di celebrare, con canti politici e danze tradizionali, quello che i palestinesi descrivono come un successo sull'ostinazione del governo Netanyahu che - a differenza dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno - si era dichiarato contro qualsiasi ipotesi di trattativa con i detenuti che chiedevano migliori condizioni di vita nei penitenziari.

E invece quel negoziato escluso per oltre un mese i funzionari del "Servizio delle prigioni israeliane", alla fine hanno dovuto avviarlo, nel carcere di Ashkelon, prima con i rappresentanti degli scioperanti - Ahmad Barghouthi, Nasser Uweis, Ammar Mardi e Nasser Abu Hmeid - e poi con l'ispiratore principale della protesta, con l'anima del digiuno andato avanti per 40 giorni, Marwan Barghouti. 

Il leader del partito Fatah in Cisgiordania, in carcere del 2002, con il quale sino a quel punto avevano evitato ogni forma di dialogo è stato centrale per sbloccare la trattativa. "Soltanto quando (gli israeliani) hanno coinvolto Marwan è stato possibile arrivare all'intesa che garantirà ai nostri fratelli incarcerati migliori condizioni di vita", spiegava ieri Issa Qaraqe, del Comitato nazionale di sostegno ai detenuti.

Sui miglioramenti strappati a Israele, fino a ieri sera regnava l'incertezza. I detenuti hanno ottenuto l'aumento delle visite dei familiari, da una a due volte al mese. Le autorità israeliane si sono impegnate a revocare le restrizioni che limitavano l'accesso alle prigioni ai familiari adulti dei reclusi. Invece non è chiaro se i detenuti godranno davvero dell'installazione di telefoni pubblici nelle prigioni e della possibilità di accedere alla visione di un maggior numero di canali televisivi. Niente da fare per la fine delle detenzioni amministrative, quelle senza processo.

Dallo sciopero della fame appena terminato è emerso anche un traguardo personale raggiunto da Marwan Barghouti. Superando l'ostruzionismo di non pochi palestinesi, molti dei quali ai vertici del suo partito, e la non collaborazione del movimento islamico Hamas - impegnato in un nuovo scontro con Fatah e il presidente dell'Anp Abu Mazen - il principale promotore della protesta ha confermato la sua popolarità nelle strade dei Territori occupati, anche se i suoi familiari preferiscono ridimensionare questo aspetto.

"Non è la vittoria di mio padre, è la vittoria di tutti i prigionieri e di tutti i palestinesi. La battaglia portata avanti da tanti detenuti, di ogni orientamento politico, ha confermato che i palestinesi otterranno i loro diritti solo quando saranno di nuovo uniti e determinati", ripeteva ieri Qassam Barghouti, il figlio del leader di Fatah, tra militanti e amici che si abbracciavano nella sede del Comitato "Free Marwan Baghouti" a Ramallah.

L'esito dello sciopero della fame avrà un impatto anche sui rapporti di potere ai vertici di Fatah dove sono diversi i candidati a prendere il posto dell'82enne presidente dell'Anp Abu Mazen. "Marwan Barghouti era già molto popolare e adesso lo è ancora di più. Il suo prestigio è più forte nella base di Fatah - spiega l'analista Ghassan Khatib - ora è il principale candidato a succedere ad Abu Mazen, gli altri pretendenti si sono tutti indeboliti".
Come Barghouti potrà diventare presidente è un interrogativo senza risposta da anni. 


È in carcere, sconta cinque ergastoli, ed è difficile immaginare che Israele possa scarcerarlo alla luce delle dichiarazioni nettamente contrarie a questa possibilità espresse dal premier Netanyahu e da altri leader politici. "Mai dire mai" avverte Khatib "le condizioni attuali non permettono la liberazione di Barghouti. Le cose però potrebbero cambiare e, comunque, a decidere non sarà solo Israele".

lunedì 29 maggio 2017

Stenti, abusi e torture: in fuga dall'inferno chiamato Libia - Accolti a Napoli

Il Mattino
Quando la prua rossa della Prudence inizia le operazioni di ormeggio, sul molo 29 del varco Carmine c'è un silenzio surreale. Appare chiaro a tutti l'emergenza vissuta a bordo di questa nave di 75 metri di lunghezza, che può ospitare massimo 600 persone e invece ne accoglie oltre il doppio. 


Alla conta finale saranno 1.449 e vengono dalla fascia sub sahariana, Siria e Marocco, stipati uno di fianco all'altro sul ponte, stremati da tre giorni e tre notti di viaggio che dalle acque internazionali a nord delle coste della Libia li ha portati finalmente a toccare terra.
Un viaggio che come sempre è carico di dolore e speranza. 

Per due giovani donne nigeriane il sogno di rifarsi una vita si è infranto nel momento in cui il loro barcone è stato intercettato dall'equipaggio di Medici senza Frontiere. Una 19enne sarà trovata già senza vita sul gommone dei disperati, mentre per una 21enne l'illusione della salvezza dura appena una manciata di minuti. Il tempo diveder salire a bordo della Prudence, sano e salvo, il fratello maggiore, e poi chiudere gli occhi per sempre.
"Sono morte presumibilmente per lo schiacciamento" spiega Michele Trainiti, coordinatore delle operazioni di ricerca e soccorso di Msf che racconta le vari fasi dell'operazione. 

C'è anche una terza vittima, ma il suo corpo è nella sala mortuaria di Lampedusa. "Le sue condizioni erano talmente gravi - prosegue Trainiti che abbiamo ottenuto il permesso di approdare sull'isola sebbene ci fosse il divieto di sbarco per il G7.
Ma è morto a pochi chilometri dalla costa". "Il ragazzo deceduto lo hanno scaricato i libici su un barcone in partenza perché per i suoi carnefici non aveva più senso sfruttarlo. Presentava malnutrizione ed era in coma. Ne è uscito per qualche ora, il tempo di parlare degli abusi subiti per otto mesi: torturato ripetutamente per fare da esempio per gli altri, usato per lavori forzati. È la prassi ormai, una parte dei disperati vengono dirottati in questi campi di detenzione per diventare schiavi", racconta Carlotta Berutto, infermiera torinese che da sette anni segue Mdf.

I racconti di Michele e Carlotta sono orrore allo stato puro. "Anche altri a bordo presentano segni evidenti di torture. La più frequente è quella che eseguono sulla pianta dei piedi: battono con delle mazze mentre sono appesi a delle corde. Lo fanno lì per non lasciare segni evidenti sul corpo. Nel tempo si creano microfratture, con il detenuto impossibilitato a lavorare, e se non lavori non mangi, ti ammali e muori". La tragedia si tinge di altro dolore quando spiegano che l'altra tortura più comune è la violenza sessuale. "Abbiamo molti casi di violenze su uomini, donne e minori. Violenze perpetrate davanti a figli, genitori, fratelli. Per annientare ancora di più la loro personalità e renderli schiavi". C'è poi chi sul braccio ha delle cicatrici a forma di numeri. "Sono incisi con il coltello, da quel momento diventa il loro nome da schiavo".

Poco dopo le 8 iniziano le operazioni di sbarco. I primi a scendere sono gli ammalati. La bandiera gialla issata segnala casi di tubercolosi e di scabbia. Poi tocca alle famiglie. Tra loro alcuni profughi siriani. Un bambino sui 4 anni stringe il bicchiere di latte e il pacco di biscotti che distribuiscono i volontari della Croce Rossa. Poi resta immobile non appena scorge le divise militari. "Non parla per il trauma della guerra".
Poco dopo arrivano le 22 donne incinte e le 5 puerpere - c'è con loro anche un fagottino di 8 giorni - che durante il viaggio sono state nel "container dei vulnerabili". Sotto la tettoia della zona di identificazione vengono rifocillate coi pasti che la Prefettura di Napoli, che ha coordinato l'intera operazione, ha chiesto alla Comunità di Sant'Egidio.A prepararli giovani napoletani, migranti e profughi che frequentano la Scuola di Lingua e Cultura Italiana nel Centro storico. 

Una volta terminate le procedure per 1.000 ricomincia il viaggio. Salgono a bordo dei bus che li porteranno nei centri di accoglienza assegnati. Gli altri resteranno in Campania. Anche l'equipaggio della Prudence riprenderà il suo viaggio per salvare altri disperati. Si riparte a mezzogiorno verso la rotta dell'orrore.

di Mariagiovanna Capone

Ong deluse dal G7 di Taormina, su clima e migranti '5 in pagella'

AnsaMed
"Dimenticati 30 milioni di persone su orlo carestia in Africa e Yemen"


Taormina - "I leader dei 7 Paesi più industrializzati non sono stati in grado di ascoltare la voce che viene dal resto del mondo, né di dare risposte a responsabilità globali come fame, povertà, cambiamento climatico e migrazioni. Meritano un 5 in pagella". Il commento di ActionAid al documento finale del G7 racchiude la delusione di molte delle ong presenti a Taormina, che fino all'ultimo hanno tentato di richiamare l'attenzione dei Grandi sui temi che stanno loro a cuore.

A lungo sono stati in contatto con gli sherpa per capire quale spazio avessero trovato le loro priorità. E sabato mattina un gruppo di attivisti ha indossato delle enormi orecchie nella hall dell'hotel dei giornalisti per farsi ascoltare in extremis, mentre in spiaggia Oxfam ha rappresentato i leader a protezione di muri simbolici per dire no alle politiche di chiusura. La risposta però è stata "un grande nulla di fatto", ha commentato il direttore generale, Roberto Barbieri.

"L'attenzione ai temi della sicurezza e del terrorismo è certamente comprensibile dopo i recenti attentati", ma il vertice "dimentica 30 milioni di persone sull'orlo della carestia in Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Yemen", e sulla questione migratoria "prevale la difesa delle frontiere sulla tutela dei diritti dei migranti".

Anche l'ong di Bono, One, parla di "chiara mancanza di ambizione" dei leader, mentre Save the children dichiara la propria delusione.

Denuncia di Strasburgo - Su 5000 migranti minori l'Europa ne ricolloca solo uno

La Repubblica
"Ricollocato un solo minore dei cinquemila approdati in Italia"
L'Europarlamento denuncia: trasferito solo l'undici per cento dei richiedenti: "Finlandia e Malta rispettano le regole, gli altri no"


Uno è il numero del cinismo europeo.
L'Italia ha bisogno di 5000 posti nell'Unione per ricollocare i minori non accompagnati arrivati sulle nostre coste. Ma i paesi europei hanno accolto finora "soltanto un minore non accompagnato", scrive nero su bianco il Parlamento di Strasburgo. Così come il milite ignoto è il simbolo della ferocia della guerra, l'anonimo e unico bambino senza genitori coinvolto nel programma di accoglienza è l'emblema della mancata solidarietà della Ue, della sua disunione e della sua crisi.

Uno stavolta non si riferisce al deficit, alle correzioni di bilancio ma alla stitica capacità di condivisione dei nostri partner. È il numero più significativo, un puntino scandaloso nella statistica del fenomeno migratorio e dei richiedenti asilo. L'intero piano di ricollocazione però sta fallendo. E la risoluzione approvata a larghissima maggioranza il 18 maggio dall'Europarlamento mette in chiaro le cifre di questo fallimento.

Solo l'11 per cento - Al 27 aprile erano stati ricollocati 17.903 richiedenti asilo: 12.490 dalla Grecia e 5.920 dall'Italia. "Un dato - scrivono i promotori della mozione - che equivale ad appena l'11 per cento degli obblighi assunti". Cioè, 18410 persone su 160 mila previste.

Chi fa la propria parte - Il programma di accoglienza solidale naturalmente esclude Italia, Grecia e Germania che fanno già il possibile nella gestione del fenomeno. In quanto paesi di arrivo sono loro a dover essere aiutati nel controllo dei flussi da tutti gli altri. Ma questa solidarietà si limita a pochissimi stati. Soltanto la Finlandia e Malta rispettano gli obblighi. E la sola Finlandia lo fa "sistematicamente" per il capitolo doloroso dei "minori non accompagnati".

Chi diserta - Praticamente tutti gli altri. Alcuni più degli altri. Ungheria e Slovacchia rifiutano la ricollocazione e hanno portato la commissione Ue davanti alla Corte europea di giustizia. Austria, Polonia e Repubblica Ceca sono fra i Paesi che fanno di meno. "Ma la maggior parte degli stati membri è ancora molto in ritardo, sebbene si siano registrati alcuni progressi".

L'italia - Il paradosso è che nel 2016 il nostro Paese ha ricollocato più richiedenti asilo di quanti sia riuscita a dirottarne negli altri stati Ue. Lo scorso anno sono arrivati da noi 181.436 persone, il 18 per cento in più rispetto al 2015. Il 14 per cento di loro erano minori. Tra i richiedenti asilo sono stati ammessi gli eritrei e 20.700 sono sbarcati sulle nostre coste. In questo caso, l'Italia è indietro nella loro registrazione, necessaria a inserirli nel programma di solidarietà.

Chi fa il furbo - Alcuni Stati membri utilizzano criteri restrittivi e discriminatori nel rifiutare le quote di accoglienza. Ricollocano soltanto le madri sole o escludono richiedenti di alcune nazionalità, ad esempio gli eritrei. Al 7 maggio scorso la Grecia si era vista respingere 961 persone che avevano i requisiti per essere trasferiti altrove.

L'obiettivo - Il Consiglio europeo si è impegnato a garantire il traguardo di 160 mila ricollocazioni. Siamo lontanissimi dal risultato. L'Europarlamento invita gli stati a dare la priorità ai minori non accompagnati e ad altri "richiedenti vulnerabili". Si chiede quindi almeno di cancellare dalle statistiche lo scandaloso "1" che riguarda la drammatica situazione dei bambini giunti in Italia. La Grecia sta meglio di noi, almeno in questa classifica. Invece di 5.000 posti, al momento ha bisogno di altri 163 "visti" per il trasferimento di altrettanti minori.

Procedure d'infrazione - Strasburgo chiede alla commissione di partire davvero con le sanzioni. Così come scattano per i decimali di sforamento del deficit (la manovra correttiva chiesta da Bruxelles all'Italia è per l'0,2 per cento), la procedura d'infrazione adesso va avviata anche per chi non rispetta il programma sui migranti. "Se i paesi non incrementeranno rapidamente le loro ricollocazioni, i poteri della commissione vanno usati senza esitazione", si legge nella mozione. "Un largo fronte europeista chiede ora a Juncker di battere un colpo", scrive il vicepresidente dell'Europarlamento David Sassoli nel suo blog su Huffpost. Ieri a Ventotene, al festival dell'associazione


"La nuova Europa", Laura Boldrini ha detto che "l'Unione avrà un futuro solo senza muri e senza paura". E da Malta il segretario del Pd Matteo Renzi ha invitato il Continente "a non voltarsi dall'altra parte" davanti alla spinta migratoria.

di Goffredo De Marchis

domenica 28 maggio 2017

Stop occupazione della Palestina: l'Israele pacifista in piazza

Globalist
Nel 50° anniversario della guerra dei sei giorni Peace Now ha riempito piazza Rabin. C'erano anche Noa e Alma Zohar.


Una bella iniziativa, mentre i falchi della destra israeliana (e dall'altro lato i fanatici fondamentalisti jihadisti) stanno colpestando le speranze di pase: nel 50esimo anniversario della Guerra dei sei giorni, il movimento Peace Now ha indetto nella piazza Rabin di Tel Aviv una manifestazione in cui ha auspicato una volta di più la fine della occupazione israeliana dei Territori ed un accordo di pace definitivo con i palestinesi.

Alla manifestazione, indetta con lo slogan 'Due Stati, un'unica speranza', hanno aderito tutti i partiti della opposizione parlamentare di sinistra. Almeno 15 mila persone vi hanno preso parte, secondo la polizia, mentre Peace Now parla di circa 30 mila presenti.

Fra gli interventi delle personalità politiche, oltre a quello del leader laburista Isaac Herzog, è stato inserito anche un messaggio registrato del presidente palestinese Abu Mazen, secondo cui ''l'unico modo per mettere fine al conflitto (con Israele, ndr.) e al terrorismo nella Regione e nel mondo è la realizzazione della soluzione dei Due Stati lungo le linee del 1967, con la Palestina accanto ad Israele''.

Alla manifestazione hanno partecipato anche artisti locali di spicco, fra cui Noa e Alma Zohar.

Brasile - Sale la protesta contro Temer - Assalto ai ministeri

Info Catania
Il presidente del Brasile, Michel Temer, ha mobilitato le forze armate, una misura che gli analisti politici definiscono "molto grave", per difendere la sede della presidenza della Repubblica e dei ministeri a Brasilia contro le violenti proteste antigovernative scoppiate nella capitale federale.


La coalizione governativa rischia di sfaldarsi, in particolare sulle due grandi riforme proposte dall'esecutivo conservatore sulle pensioni e sul lavoro, osteggiate anche dalla Chiesa. I vescovi brasiliani sono preoccupati che le riforme colpiscano ancora di più i ceti deboli, già in sofferenza per la crisi economica che attanaglia il Paese.

Alcuni parlamentari hanno presentato richiesta di impeachment nei confronti di Temer. Il Tribunale supremo federale lo ha incriminato per tre gravi reati: corruzione passiva, intralcio alla giustizia e associazione per delinquere. Lui si difende, nega ogni addebito e per rilanciare la sua immagine vuole varare una riforma del lavoroche i suoi oppositori definiscono "inaccettabile".In sostanza vengono aboliti i perni fondamentali dello Statuto dei lavoratori varato nel 1943. Il ministero dell'Agricoltura, situato sulla strada che conduce alla residenza di Temer, è stato evacuato dopo l'irruzione dei manifestanti, che hanno dato fuoco ad una stanza.

Giornate di pesanti scontri a cui ha partecipato un numero imprecisato di persone, chi dice 40mila e chi 100mila, per chiedere le dimissioni di Temer è degenerata in violenza guerriglia. Sono stati attaccati anche i ministeri delle Finanze, della Cultura, del Turismo e dell'Energia e delle Miniere. I manifestanti hanno cercato di dare alle fiamme palazzi e ministeri: sono stati schierati circa 1500 soldati.

USA - Bocciato di nuovo il Muslim Ban di Trump

Corriere della Sera
È stata bocciato nuovamente il muslim ban: il bando voluto dal presidente Donald Trump che vieta l’accesso di cittadini di sei Paesi musulmani sul suolo Usa



La corte d’appello degli Stati Uniti ha confermato la bocciatura del bando all’ingresso di cittadini di sei paesi musulmani in territorio americano, fortemente voluto da Donald Trump. La decisione dei giudici della corte d’appello di Richmond, in Virginia, conferma la sentenza di grado inferiore e mantiene quindi il blocco al provvedimento. 


La vicenda è a questo punto diretta alla Corte Suprema, anche se è probabile che ci vorranno mesi prima che i massimi giudici prendano in esame il fascicolo.
I provvedimenti di Trump
La decisione di stilare una serie di provvedimenti che riguardano l’immigrazione e i diritti dei rifugiati era stata fortemente voluta da Donald Trump come necessaria per prevenire attacchi terroristici. Criticata e fortemente avversata, ha ricevuto ora una nuova bocciatura. A confermare il blocco sulla seconda versione del cosiddetto Muslim Ban è stata la corte d’Appello del quarto circuito degli Stati Uniti che con questa sentenza che conferma la scelta di un giudice federale delle Hawaii, che a marzo aveva impedito l’entrata in vigore della seconda versione dell’ordine, definendolo animato da motivazioni anti-musulmane e per questo motivo anticostituzionale.
Le due versioni del «Muslim Ban»
Il bando era stato uno dei primi provvedimenti presi da Trump appena assunta la presidenza degli Stati Uniti. A fine gennaio, il capo della Casa Bianca aveva firmato un primo documento che era stato avversato da più parti e fortemente contestato con manifestazioni e proteste. A marzo, l’amministrazione Usa aveva firmato una seconda versione del bando che prevedeva lo stop agli ingressi di cittadini da alcuni Paesi a maggioranza musulmana: Iran, Libia, somalia, Sudan, Siria e Yemen. Nella seconda versione, era stato tolto dall’elenco un settimo Paese, inizialmente incluso, l’Iraq.

sabato 27 maggio 2017

Auguri a tutti i lettori di fede islamica: "Ramadan Mubarak"

Blog Diritti Umani - Human Rights

"In occasione dell'inizio del mese di Ramadan, 
un augurio di pace a tutti i lettori di fede islamica,
Ramadan Mubarak"

Incredibile - Presidente delle Filippine Duterte incita i militari allo stupro: “Se vi capita, dirò che l’ho fatto io”

La Stampa
«Se vi capita di stuprare tre donne, dirò che l’ho fatto io». Lo ha detto ieri sera il presidente filippino Rodrigo Duterte, in un discorso fatto ai soldati impegnati a far rispettare la legge marziale imposta sull’isola di Mindanao in seguito alla presa di parte della città di Marawi da parte di un gruppo di combattenti islamici affiliato all’Isis. 

«Sarò io a prendermi la responsabilità. Andrò in prigione per voi. Voi fate il vostro lavoro, e io mi prenderò cura del resto», ha detto il leader di Manila prima di aggiungere la frase incriminata, detta con tono scherzoso.

Non è la prima volta che Duterte - noto per la sua parlata «popolana» e volgare - menziona la violenza sessuale nei suoi comizi. Prima di essere eletto un anno fa, aveva fatto dell’umorismo su uno stupro di gruppo ai danni di una missionaria australiana uccisa nel 1989 a Davao, da lui guidata. «Che peccato. Il sindaco sarebbe dovuto essere il primo», aveva detto a una folla di sostenitori, scatenando le risate del pubblico.

Congo - Coltan, minerale fondamentale per gli smartphone estratto da bambini e minatori sottopagati

Giornalettismo
Un’inchiesta inquietante quella di David Chierchini e Matteo Keffer di Nemo, il programma andato in onda ieri sera su Rai Due. I due giornalisti sono andati nella Repubblica del Congo, a scoprire la vita dei minatori del coltan, un materiale preziosissimo che serve alle grandi industrie della tecnologia per fabbricare smartphone, tablet, computer e altri strumenti utilizzati quotidianamente da un numero altissimo di persone. 



Una sorta di nuovo oro, che permette al mondo della rivoluzione tecnologica di andare avanti: ve la immaginate, oggi come oggi, una vita senza cellulare?

Eppure, estrarre questo minerale è pericolosissimo e il lavoro viene fatto da minatori sottopagati (il loro stipendio mensile è di 50 dollari per 12 ore al giorno di dura fatica), molto spesso da bambini. E così, mentre il ministro delle Miniere della Repubblica del Congo pensa a come costruire un nuovo dicastero, nega che i minori siano impiegati nelle cave e sostiene che la ricchezza derivante dall’esportazione del coltan sia ben distribuita nel Paese, la realtà è ben diversa.


Le immagini di Nemo mostrano lavoratori che operano in condizioni igieniche precarie, che non sono coperti nemmeno dai minimi standard di sicurezza e che rischiano quotidianamente la loro vita per poter dare un supporto economico alle loro famiglie. C’è, ad esempio, chi lavora in profondità, in luoghi quasi inaccessibili, dove le pareti della miniera possono crollare da un momento all’altro: se queste persone non riusciranno a estrarre il coltan dalle cave, non verranno pagate.


L'inchiesta di Nemo



Poi ci sono i bambini. Il governo nega qualsiasi loro coinvolgimento nelle attività estrattive, ma la troupe di Nemo ne scopre tantissimi con gli attrezzi da lavoro in mano. Alla vista delle telecamere, scappano e si nascondono: non vogliono essere scoperti, hanno paura di qualcosa. Succede anche questo nelle miniere di coltan del Congo.


Infine, l’inquietante rapporto economico. Un chilogrammo di coltan costa 20 dollari (prezzo imposto, secondo i minatori, da Paesi come il Belgio, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, macroproduttori di apparecchiature tecnologiche), per estrarne 20 (400 dollari, il ricavo) ci vogliono una settimana di lavoro e cinque operai. Uno smartphone (la percentuale di coltan utilizzata e irrisoria nei singoli dispositivi) ha un prezzo elevatissimo, i lavoratori delle miniere non riescono, con i loro 50 dollari al mese, a condurre una vita dignitosa. Il prezzo del nostro benessere.

Gianmichele Laino

venerdì 26 maggio 2017

Nuova strage di cristiani copti in Egitto. 35 morti in un attacco a bus di pellegrini, anche bambini

La Repubblica
Attacco armato a un convoglio di autobus che trasportava cristiani copti a Menyah, a 250 Km a sud dal Cairo. Un commando di dieci uomini armati di mitragliatrici e con addosso divise militari ha bloccato il mezzo, salendo a bordo e aprendo il fuoco sui passeggeri. 


Secondo quanto scritto da un testimone su Twitter, uno degli assalitori ha anche filmato il massacro.

Al momento il bilancio dell'attacco è di 35 morti, secondo quanto riferito su Twitter dall'ex portavoce della chiesa copta ortodossa, Anaba Ermya. Tra le vittime anche molti bambini. 

Il portavoce del ministero della Salute, Khaled Megahed, ha invece parlato di almeno 25 morti e 27 persone feriti. Ma il bilancio è in continuo aggiornamento.

Alabama - Scampò al boia sette volte: ma alla fine eseguita la pena di morte di Tommy Arthur

Globalist
Tommy Arthur condannato per la morte di un uomo nel 1982: i suoi legali avevano sempre trovato cavilli per rinciare l'esecuzione



Nulla da fare, purtroppo per lui: era stato soprannominato "Houdini" perché per ben sette volte era riuscito ad evitare il boia con vari appigli legali. Ma dopo l'ennesimo rinvio, per Tommy Arthur non c'è stato più nulla da fare e lo hanno fatto morire con una ineazione letale. Aveva 75 anni.
Arthur era stato condannato a morte nel 1983 dopo aver ucciso un uomo su commissione della moglie di quest'ultimo: per 33 anni, i suoi legali hanno cercato di convincere praticamente tutti i tribunali dell’Alabama e quelli federali d’appello che Arthur è innocente dell’omicidio per il quale è stato condannato a morte.
Una delle ultime carte da giocare fu quella di contestare il metodo d’esecuzione in quanto la nuova miscela di farmaci (sperimentata una sola volta in Alabama, nell’esecuzione di Christopher Brooks) avrebbe potuto dar luogo a una morte crudele, come già successo in passato in altri stati degli Usa.
La Corte suprema federale aveva esaminato una serie di ricorsi contro i nuovi protocolli dell’iniezione letale stabilendo che spetta al condannato a morte indicare un metodo alternativo che sia “praticabile e attuabile in tempi rapidi” e riduca significativamente il rischio di infliggere grave dolore fisico alla persona che sta per essere messa a morte.

Gli avvocati di Arthur hanno allora proposto il plotone d’esecuzione: si trattava evidentemente di una strategia legale, giacché l’obiettivo è che il loro cliente non venisse messo a morte in alcun modo.
Poi nulla hanno potuto i cavilli legali. 'Houdini' è stato ucciso

Migranti - 2017 annus horribilis: oltre 200 bambini morti in mare

Adnkronos
Sono almeno 200 i bimbi morti quest'anno lungo la pericolosa rotta del Mediterraneo centrale dal Nord Africa all’Italia, una media di più di un bambino al giorno. Sono le ultime stime dell'Unicef rese note oggi a Palermo, in occasione dell'incontro dei leader del G7 in programma in Sicilia, luogo simbolo per la crisi dei rifugiati e migranti in Europa.


I dati del 2017 mostrano che il numero di chi, compresi bambini, sta intraprendendo il viaggio per raggiungere l’Europa, nonostante i grandi rischi connessi al viaggio, è in aumento: tra l'1 gennaio e il 23 maggio, oltre 45.000 rifugiati e migranti sono arrivati in Italia via mare con un aumento del 44% rispetto allo stesso periodo nello scorso anno. Questo dato comprende anche circa 5.500 minorenni non accompagnati e separati – un aumento del 22% dal 2016 – che rappresentano circa il 92% di tutti i bambini arrivati in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale.

"Un numero maggiore di bambini sta affrontando la rotta del Mediterraneo centrale per raggiungere l’Italia - ha detto Justin Forsyth, vice direttore generale Unicef -. Ciò significa che, per questo motivo, stanno morendo ancora più bambini. Un numero record di 26.000 bambini non accompagnati e separati è arrivato in Italia lo scorso anno, ma se il trend attuale continuerà, questo dato sarà ampiamente superato nel 2017".

"Non è un record di cui andare fieri, ma un monito del nostro fallimento collettivo nell’assicurare a questi bambini rifugiati e migranti sicurezza e benessere". Oggi, alla vigilia del G7, l’Unicef, insieme a bambini, volontari e alla Guardia costiera italiana, ha preso parte in un’iniziativa sulla spiaggia di Palermo ad un salvataggio simbolico di barchette di carta per ricordare le migliaia di bambini che hanno rischiato la loro vita, attraversando il Mediterraneo centrale e per lanciare un messaggio ai leader del G7 affinché intervengano per proteggere i bambini migranti.

giovedì 25 maggio 2017

Rifugiati - A giugno i primi arrivi sicuri in Francia con i corridoi umanitari

Riforma.it
Il presidente della Federazione protestante di Francia, pastore François Clavairoly ha confermato per il prossimo mese l’arrivo dal Libano dei primi beneficiari del progetto ecumenico lanciato sul modello italiano dei "corridoi umanitari"


«E’ tutto pronto. I promotori protestanti e cattolici dei “corridoi umanitari” verso la Francia stanno ora solo aspettando il segnale del neo-governo Macron, che ha appena riconfermato il suo impegno a sostenere il nostro progetto. Il primo arrivo di profughi siriani è atteso a giugno». Lo ha confermato il presidente della Federazione protestante di Francia (Fpf), il pastore François Clavairoly, che domenica scorsa, in occasione del Festival internazionale del Cinema di Cannes, alla presenza della 44esima giuria ecumenica del Festival, ha predicato nel tempio protestante della città sul tema della fratellanza e dell’accoglienza.

«La questione è ora nelle mani del neo-ministro dell’Interno Gérard Collomb», ha affermato all’agenzia Nev il pastore Clavairoly, aggiungendo: «Per i trasferimenti aerei abbiamo appena concluso l’accordo con Air France. Aspettiamo di conoscere il giorno preciso del primo volo».

Il progetto, lanciato lo scorso 13 marzo a Parigi alla presenza dell’ex presidente François Hollande, «è stato accolto positivamente sia a livello istituzionale, che a livello della popolazione», ha assicurato il presidente della Fpf: «Siamo davvero felici di riproporre quanto già avviato con successo in Italia. Inoltre, siamo molto riconoscenti per il fatto che, nella nostra laica Francia, questa proposta di natura eminentemente ecumenica sia stata accolta con tanta convinzione».

Nel quadro di un accordo dell’Unione europea la Francia deve accogliere 30mila rifugiati. «Oggi sono non più di 5000 su tutto il territorio – spiega Clavairoly -. Davvero pochi. Il mio augurio è che il nuovo governo francese rispetti gli impegni presi. Non ne sarei affatto sicuro – aggiunge scettico -, e insieme ai nostri partner ecumenici dei “corridoi umanitari”, ci impegneremo affinché il numero dei rifugiati da accogliere venga ulteriormente aumentato, tenendo alta la tradizione francese in materia di diritti fondamentali».

Il protocollo d’intesa per l’attivazione dei “corridoi umanitari” tra Libano e Francia impegna, oltre alla Fpf, anche la Comunità di Sant’Egidio Francia, la Conferenza episcopale francese, l’Entraide Protestante e il Secours Catholique. 

 Il titolo completo del progetto ecumenico è Opération d’accueil solidaire de réfugiés en provenance du Liban – “Operazione d’accoglienza solidale dei rifugiati provenienti dal Libano” – e utilizza la medesima base giuridica del progetto italiano, ovvero l’articolo 25 del Codice dei visti (CE) n. 810/2009. 

Per i prossimi 18 mesi, l’accordo siglato impegna il governo francese a concedere 500 visti umanitari a beneficio di persone in acclarata condizione di vulnerabilità, mentre i cinque enti promotori si faranno carico delle spese, delle strutture d’accoglienza e dell’integrazione dei nuovi arrivati sul suolo francese.

Bangladesh: i cambiamenti climatici e povertà incrementano numero di spose bambine

Internazionale
Mio padre ha detto che stavolta mi dovevo sposare, non potevo oppormi. Gli ho detto che avremmo dovuto pensarci, ma lui mi ha fatto sposare in fretta e furia”, dice Brishti, 14 anni.

In Bangladesh il 66 per cento delle ragazze si sposa prima dei diciotto anni e più del 30 per cento prima dei quindici anni. 

Negli ultimi tempi il fenomeno si è aggravato a causa degli effetti dei cambiamenti climatici, che spingono sempre più persone a lasciare la campagna per trasferirsi a Dhaka.

Per i contadini, abituati a coltivare la terra e allevare il bestiame nei villaggi, è molto difficile mantenere una famiglia nella capitale. 

Per liberarsi di quello che considerano un peso economico, sempre più spesso i genitori fanno sposare le figlie in età giovanissima, anche se devono indebitarsi per pagare la dote. 

Se lo sposo non riceve la dote, infatti, può rifiutare la moglie o arrivare a torturarla. Secondo le stime nel 2040 gli sfollati interni saranno più di dieci milioni.

mercoledì 24 maggio 2017

Iran, difensore dei diritti umani curdo libero dopo 10 anni di ingiusta detenzione

Amnesty Italia
Non avrebbe dovuto passare in carcere neanche un giorno e invece vi ha trascorso un intero decennio, solo al termine del quale, il 12 maggio, è stato rilasciato.
Mohammad Sadiq Kavudband
Mohammad Sadiq Kavudband, 55 anni, era stato arrestato nel 2007 e condannato a 10 anni per aver fondato l’Organizzazione per i diritti umani del Kurdistan e aver diretto il quotidiano Payam e-Mardom e-Kurdistan.

Kavudband esce dal carcere malconcio: durante la detenzione ha avuto costanti problemi cardiaci e renali e ciò nonostante ha portato avanti numerosi scioperi della fame, uno dei quali nel 2012 per oltre due mesi).

Ma è determinato a proseguire la sua lotta in difesa dei diritti umani, sempre che le autorità iraniane lascino decadere l’accusa che lo ha raggiunto nel 2016 mentre era in carcere: “Propaganda contro il sistema”, per aver diffuso una dichiarazione a sostegno della lotta dei curdi siriani di Kobane.

Migranti: è strage al largo della Libia, almeno 34 morti, molti bambini, decine di dispersi

Ansa
Nuova strage in mare: i corpi di 34 persone sono stati recuperati in mare dopo il naufragio di un barcone diretto verso l'Italia, a bordo circa 500 migranti. Tra le vittime anche bambini: secondo fonti dei soccorritori, dovrebbero essere una decina.

I migranti naufraghi dalla Nave della ONG MOAS
Il naufragio è avvenuto a circa 30 miglia dalle coste libiche, a largo del porto di Zuara. Sono in corso le ricerche di altre persone finite in acqua, ma si temono numerosi dispersi. Le operazioni sono coordinate dalla centrale operativa di Roma della Guardia Costiera: in zona stanno operando nave Fiorillo, della stessa Guardia Costiera, un rimorchiatore e una nave di una organizzazione non governativa.

Venezuela, altre due vittime in proteste anti-Maduro, sale a 60 il numero dei morti

Radio Vaticana
In Venezuela sale a 60 il numero delle vittime delle proteste anti- Maduro in corso da aprile. Intanto, un secondo magistrato della Corte suprema respinge il progetto di Assemblea Costituente presentato dal presidente. Contrario, secondo un sondaggio, anche il 73% dei venezuelani.



Continuano le proteste in Venezuela e si aggiorna il numero delle vittime. Gli ultimi dati diffusi dalla Procura nazionale parlano di 8 morti negli scontri che si susseguono da lunedì nello stato occidentale di Barinas. 

Nonostante le proteste di piazza, quasi giornaliere in diverse città del Paese, il presidente Nicolas Maduro intende portare avanti il suo progetto di Assemblea Costituente. 

Un assemblea composta da 540 membri, che - ha annunciato ieri eri la responsabile del Consiglio nazionale elettorale- saranno eletti a fine luglio. Intanto, un secondo magistrato della Corte suprema respinge la riforma Maduro: “Questa Costituente non ci rappresenterà legittimamente - dice Marisela Godoy, giudice del Tribunale supremo di giustizia- e porterà solo altro sangue e altri orrori". 

Contrario anche il 73% dei venezuelani, secondo i dati diffusi ieri a Caracas da un sondaggio dell’agenzia demoscopica Datincorp, per cui più del 50% degli intervistati ritiene che andare a nuove elezioni sia l’unica via d’uscita dalla crisi che attanaglia il Paese. E di “riforma truffa” a parlato anche l’ex candidato presidenziale dell’opposizione, Henrique Capriles.
Elvira Ragosta

Centrafrica, vescovo e cristiani fanno da scudo ai musulmani

Avvenire
Per scongiurare ulteriori stragi, monsignor Aguirre ha protetto la comunità in Centrafrica. Barricati in moschea nel sud del Paese per evitare una strage.




«Sto molto bene. Ma mi sono messo a fare da scudo affinché non vengano uccisi 500 donne e bambini all’interno di una moschea. Insieme ad altri, siamo qui da tre giorni. Raccogliamo feriti e cadaveri. Finora abbiamo contato 40 morti e cento feriti». 


Questa è una parte del messaggio telefonico inviato mercoledì alla famiglia da monsignor Juan-José Aguirre, vescovo spagnolo della cittadina di Bangassou, nel sud della Repubblica Centrafricana. Parole preoccupanti che però, grazie al coraggio di questo religioso e di pochi altri come lui, hanno incontrato, alla fine, una conclusione buona.

Almeno per ora. «Sono arrivati i caschi blu portoghesi – ha potuto spiegare padre Aguirre –. E il cardinale Dieudonné Nzapalainga sta negoziando con i ribelli anti-balakà per far evacuare la gente in sicurezza». 

Da più di una settimana si sono riaccesi pericolosi focolai di guerra nel Paese. La regione di Bangassou, presa recentemente di mira dagli anti-balakà a maggioranza cristiana, è tra le più tese. «Juan sta aiutando da tempo musulmani e cristiani a riconciliarsi – spiega il fratello, Miguel Aguirre –. Lui vuole far conoscere la realtà centrafricana poiché il Paese è invisibile agli occhi del mondo nonostante le continue gravissime sofferenze». Dal 2000, anno in cui diventò capo della diocesi di Bangassou, il comboniano Aguirre ha lanciato diverse iniziative per migliorare la società di tale provincia centrafricana.

Durante la sua permanenza sono stati istituiti asili, scuole, ospedali, orfanotrofi, spazi Internet e un centro di salute per i malati di Aids. «Monsignor Aguirre non ha mai lasciato la popolazione, né durante gli attacchi dei famigerati ribelli ugandesi dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra) né quando gli insorti dell’ex coalizione musulmana Selekà avanzavano nel 2013 per effettuare il colpo di Stato», spiega l’operatore (che chiede di restare anonimo) di un’organizzazione non governativa. L’opera del religioso per assistere i cristiani della cittadina e promuovere la riconciliazione delle due comunità religiose ha avuto esiti molto positivi ed evitato ulteriori massacri nella regione. Il fratello del vescovo racconta che «i milizia- ni anti-balakà in questi giorni erano entrati a far parte di gruppi armati provenienti dalla capitale, Bangui».

«Non erano originari della zona in cui lavora Juan-José», sottolinea Miguel Aguirre. La crisi mel Paese si sta aggravando velocemente. Secondo il Comitato internazionale della croce rossa (Cicr) sono almeno 115 i cadaveri ritrovati dopo gli ultimi massacri a Bangassou. Vari gruppi di miliziani hanno preso di mira anche la missione Onu nel Paese (Minusca) uccidendo cinque caschi blu il 9 maggio nel villaggio di Yogofongo e un altro soldato Onu nei i combattimenti di Bangassou. «La calma raggiunta a Bangui e in altre cittadine del Paese rischia di essere coperta dall’aggravarsi della situazione nelle zone rurali - ha detto ieri Zeid Raad al-Hussein, Alto commissario Onu per i diritti umani –. I cittadini indifesi, come sempre, pagheranno il prezzo più alto per l’aumento di violenze tra le comunità».


Matteo Fraschini Koffi, Lomé (Togo)

martedì 23 maggio 2017

Ricordo di Giovanni Falcone - 25 anni fa la strage di Capaci

Blog Diritti Umani - Human Rights

‘Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.’



Manchester, attacco kamikaze al concerto: 22 morti, anche bambini

Ansa
Kamikaze a Manchester, al concerto di Ariana Grande, idolo dei teenager: almeno 22 morti e 59 feriti. Ci sono anche bambini tra le vittime, riporta la Bbc online. 


E' il peggiore attacco terroristico su suolo britannico dal 7 luglio del 2005 quando a Londra quattro bombe piazzate da Al Qaeda su mezzi del trasporto pubblico uccisero 56 persone, compresi i quattro kamikaze, e ne ferirono 700.

lunedì 22 maggio 2017

Libia. Appello di capo Unhcr a liberazione rifugiati e richiedenti asilo

Askanews
Il capo dell'Alto Commissariato per i rifugiati dell'Onu (Unhcr), Filippo Grandi, ha lanciato oggi un appello a Tripoli alla liberazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati detenuti nei centri di detenzione per migranti in Libia. 


"Spero innanzitutto che i richiedenti asilo e i rifugiati lascino questi centri di detenzione", ha dichiarato Grandi a dei giornalisti al termine di una visita in un centro di detenzione nella capitale libica. 

Il capo dell'Unhcr ha detto di comprendere le preoccupazioni delle autorità libiche in materia di sicurezza. Ma, ha aggiunto, "altre soluzioni" dovrebbero essere trovate per i migranti provenienti da Paesi in conflitto come i siriani e somali.

Intercettati o salvati nel Mediterraneo durante le loro traversate verso l'Europa, migliaia di migranti sono detenuti in una quarantina di centri di detenzione in Libia in condizioni precarie. In una nota pubblicata oggi a Ginevra, l'Unhcr ha assicurato di aver ottenuto la liberazione di più di 800 rifugiati vulnerabili e richiedenti asilo negli ultimi 18 mesi.

Citato dal testo, Grandi si è detto "scioccato dalle condizioni difficili nelle quali i rifugiati e i migranti sono detenuti". "I bambini, le donne e gli uomini che hanno già molto sofferto non dovrebbero sopportare queste difficoltà", ha aggiunto. 

Grandi ha promesso di rafforzare la presenza della sua organizzazione in Libia se le condizioni di sicurezza lo permettono, per fornire assistenza anche alle centinaia di migliaia di sfollati libici all'interno del Paese.

Nigeria - La gioia, il pianto e gli abbracci: a casa le ragazze rapite da Boko Haram

Globalist
La loro storia ha commosso il mondo: hanno potuto riabbracciare le famiglie solo molti giorni dopo la liberazione.




La fine di un orrrore e di una disperazione durata per un tempo interminabile. Ma ferite che resteranno a lungo, Le famiglie delle 82 studentesse della scuola di Chibok, in Nigeria, rapite dal gruppo jihadista Boko Haram, e liberate allinizio di maggio dopo 3 anni di prigionia, hanno potuto finalmente riabbracciare le loro figlie ad Abuja. 



Prima che l’incontro fosse concesso è stato necessario interrogare le giovani e fornire loro il supporto psicologico necessario per il reintegro nell’ambiente familiare dopo una simile traumatica esperienza.






Nell’80° della strage di Debre Libanos, restituire all'Etiopia i beni trafugati dall'Italia

Blog Andrea Riccardi
Si compie oggi l’80° anniversario della strage di Debre Libanos, compiuta dalle truppe italiane agli ordini del generale Maletti, sotto la guida del maresciallo Graziani e di Mussolini. 

Una rarissima immagine che documenta l'eccidio di Debre Libanos (Tv2000)
Un vergognoso assassinio di oltre 2000 tra monaci, diaconi, giovani e pellegrini. La strage fu accompagnata anche dall’incendio del monastero e dalla razzia di oggetti preziosi e testi antichi.

In occasione di questo 80° anniversario un docufilm di TV2000 ha sensibilizzato l’opinione pubblica e io stesso sono intervenuto sul tema nelle pagine del Corriere e di Avvenire. Anche il giornalista Gian Antonio Stella ha lanciato un appello a non dimenticare.

Sono convinto che sia necessaria l’individuazione e la restituzione dei beni trafugati e portati in Italia. Le istituzioni dello Stato e le forze armate hanno la responsabilità di rendere omaggio ai caduti e di condannare l’accaduto, gravissimo episodio, espressivo dei metodi con cui fu condotta la repressione in Etiopia da parte degli italiani.

Un gesto sarebbe auspicabile da parte della Chiesa cattolica italiana che benedì l’impresa come “apertura dell’Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà romana” propagando una cultura del disprezzo verso quello che definì un clero “ignorante e corrotto”. 

Finora purtroppo sembra che le istituzioni del nostro paese preferiscano non ricordare.

Andrea Riccardi
21 maggio 2017

TG2000 Speciale Debre Libanos

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Avvenire: Etiopia. Debre Libanos, gli 80 anni di un eccidio senza scuse

domenica 21 maggio 2017

Tra i bambini perduti del Nepal venduti come schiavi e spose bambine

La Stampa
Le piccole cedute per pochi dollari in India e Qatar. Cresce il lavoro nelle miniere. E le Ong lanciano l’allarme: dopo il terremoto il traffico di minori è aumentato.

Un bambino in una fabbrica di mattoni nel distretto di Bhaktapur (Foto: Monica Perosino)

Hira Thapa, 11 anni, costa 900 dollari sul mercato di Qatar e Arabia Saudita. Kamal, 8 anni, vale 7000 rupie indiane, 108 dollari, a New Delhi. Sabriti, 13 anni, vale meno di mezzo dollaro al giorno, 14 ore al giorno, nella fabbrica di mattoni del distretto di Bagmati, nella valle di Kathmandu. Sua sorella, 10 anni, è stata venduta per 67 dollari a un dentista di Lucknow, Uttar Pradesh.

Sono i figli perduti del Nepal. Orfani, o semplicemente poveri, venduti dai loro stessi famigliari ai trafficanti di bambini, destinati a lavorare nelle miniere e nelle fabbriche, o a diventare schiavi sessuali per i mercati di India, Iraq, Oman, Cina, Sud Corea, Hong Kong, Arabia Saudita, Qatar.

I numeri sono spaventosi: secondo le stime Unicef ogni anno vengono venduti 15.000 bambini. Per le ong di Kathmandu si arriva a 25 mila. La maggior parte è condannata allo sfruttamento sessuale in India, ma non solo. I Paesi del Golfo, raccontano le Ong, sono i principali «acquirenti» di bambine nepalesi sotto i 14 anni. E oggi la situazione, già drammatica, è ancora peggiorata: a due anni dal terremoto di magnitudo 7.8 che il 25 aprile 2015 ha devastato il Paese, lasciato 9000 morti, polverizzato 700.000 edifici e ridotto alla disperazione tre milioni di persone, il Nepal è ancora in ginocchio e le prede più deboli sono i bambini e le donne.

La ricostruzione avanza a passi talmente lenti da essere impercettibili, il tasso di povertà, già tra i più alti al mondo, è cresciuto senza pietà, arrivando a toccare il 46% della popolazione. In questo quadro i bambini rimasti orfani o appartenenti a famiglie cadute in miseria corrono un alto rischio di essere venduti, tanto che in soli 18 mesi dal sisma la tratta è aumentata del 15%.
Le vittime
Oltre il muro del frastuono dei motorini che intasano ogni vicolo, nell’aria satura di polvere che a Kathmandu ricopre tutto, cose, persone, palazzi deformati dal terremoto e dalla miseria, si apre una porta verde su un piccolo cortile fresco, alle spalle del mercato di Durbar Square, il cuore simbolo della capitale. Seduta su una sedia foderata di similpelle marrone c’è lei, Hira Thapa, che a 11 anni è stata tradita già tre volte. La prima dal destino, che l’ha fatta nascere nella casta più bassa del Nepal, i Dalit, e nel distretto di Sindhupalchok, tra i più poveri del Paese e il più colpito dal terremoto del 2015. La seconda dai genitori, che l’hanno venduta per lavorare in città. La terza dal proprietario del ristorante in cui ha servito ai tavoli per 4 mesi che l’ha «data» a un trafficante per un cliente del Qatar. 

Una schiava sessuale di 11 anni a 900 dollari. «Una fortuna per una famiglia nepalese - spiega Mohan Dangal, presidente della ong Child Nepal -. I bambini vengono spediti in città dalle zone più rurali e povere, ed è lì che spesso vengono agganciati dai trafficanti». Il terremoto ha lasciato migliaia di orfani, senza entrambi i genitori o con solo la madre o il padre. Il governo cerca di evitare quanto possibile di mandare i piccoli negli orfanotrofi e così li affida ai parenti più prossimi, «e sono loro che spesso li vendono per pochi dollari. Ma anche una madre rimasta sola non ha molte alternative». Hira Thapa, sorprendentemente, è illuminata da un sorriso che non la abbandona mai. «Mia mamma mi voleva bene», dice, e poi tace.

L’unica via di uscita
«La speranza sta nelle scuole - aggiunge Mohan Dangal -. L’unico modo per evitare, o almeno tentare di evitare che le famiglie credano di non avere via di uscita se non quella di mandare via i figli e per proteggerli in strutture che li tengano lontani dai trafficanti». Peccato che soprattutto nelle zone rurali, le scuole siano state polverizzate dal terremoto. 

Ma ci sono eccezioni che riaccendono le speranze. Come quella a Kavre, dove la ong italiana WeWorld sta portando avanti una serie di progetti per garantire ai bambini scuole sicure. Nei distretti di Sindupalchock, Kavrepalanchok, e Kathmandu - dove WeWorld lavorava da anni a favore dell’educazioni di base -, il terremoto ha colpito duramente. Solo a Sindupalchock sono morte 40.000 persone e l’80% delle scuole elementari sono state distrutte. «Nei 3 mesi successivi al sisma - spiega Marta Volpi, rappresentante di WeWorld Onlus in Nepal - abbiamo costruito 63 strutture temporanee per garantire la scolarizzazione e un luogo sicuro a 5000 bambini, monitorando la loro presenza e prevenendo il rischio che cadessero nelle mani dei trafficanti». A due anni dal terremoto, la fase di emergenza si è conclusa, e WeWorld è impegnata nella ricostruzione di scuole permanenti.

A Kavre scatta l’intervallo, i bambini si riversano nel cortile tra gridolini e risate: «Per loro anche venire a scuola è una sfida - aggiunge Marta - molti devono camminare per chilometri per arrivarci, devono lavorare nei campi prima e dopo le lezioni per aiutare le famiglie, non si possono permettere libri, quaderni, penne, che cerchiamo di fornire noi , così come pasti e cure mediche. Ma le famiglie sanno che il sacrificio che fanno ora è l’unica scelta possibile per salvarli».

Monica Perosino
Inviata A Kathmandu