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mercoledì 14 ottobre 2015

L’agonia dei diritti umani in Messico ad un anno dalla scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa

Unimondo
Il 26 settembre scorso si è celebrato l’anniversario della scomparsa dei 43 studenti della scuola rural normal di Ayotzinapa. E’ passato infatti un anno da quando vennero attaccati i due autobus su cui viaggiavano gli studenti che raccoglievano fondi per partecipare alla manifestazione di città del Messico in memoria di altri studenti, quelli che nel 1968 vennero massacrati da polizia ed esercito mentre manifestavano.

In occasione dell’anniversario, una moltitudine di manifestazioni sono state organizzate in tutto il Messico ed in centinaia di città del mondo, dove messicani e non si sono riuniti nelle piazze, nelle strade, o davanti alle ambasciate per chiedere giustizia e per denunciare lo stato drammatico in cui versano i diritti umani nel paese. Giustizia infatti non è ancora stata fatta e, peggio ancora, la dinamica dei fatti non è ancora chiara, mentre appare evidente la reticenza da parte del governo federale nel fornire una spiegazione plausibile dei fatti avvenuti il 26 settembre 2014.

La versione ufficiale fornita dalla Procuraduría General de la República è stata infatti seccamente smentita dall’inchiesta, durata sei mesi, del Grupo Interdisciplinario de Expertos Independientes (GIEI) appartenenti alla Commissione Interamericana per i Diritti Umani. 

Gli esperti internazionali, nel rapporto di 550 pagine presentato lo scorso 6 settembre, hanno infatti sottolineato come non vi sia alcuna evidenza scientifica rispetto al rogo dei corpi degli studenti avvenuto nella discarica di Cocula, non molto distante dal luogo dove gli studenti sono stati visti per l’ultima volta. La versione governativa segnalava come gli studenti fossero stati detenuti dalla polizia di Iguala e Cocula per poi essere consegnati a sicari del gruppo di narcotrafficanti Guerreros Unidos. Questi avrebbero condotto gli studenti alla discarica di Cocula dove li avrebbero assassinati per poi darne alle fiamme i corpi, in una pira alimentata con copertoni, immondizie e vari tipi di combustibile che sarebbe arsa per 12 ore. Le ossa sarebbero poi state sbriciolate e gettate in un fiume. Nessuna traccia di ciò è però venuta alla luce. Il rapporto degli esperti indipendenti sottolinea invece come per incenerire 43 corpi sarebbero state necessarie 30 tonnellate di legna, con un rogo che sarebbe dovuto durare per almeno 60 ore. La colonna di fumo si sarebbe levata fino a 300 metri di altezza, attirando l’attenzione delle località vicine. Niente di tutto questo è invece accaduto ed il rapporto sottolinea come siano state fatte sparire prove e gravi errori siano stati commessi nell’interpretazione dei fatti di Iguala.

Quanto accaduto ad Iguala testimonia lo stato di agonia in cui versano i diritti umani in Messico, ma non si tratta certo dell’unico episodio. Come ricordavamo anche su Unimondo, sono almeno 25.000 i desaparecidos in Messico dal 2006 ad oggi, e a questi vanno aggiunti i numerosi casi di torture ed assassinii rimasti ancora impuniti. Organismi indipendenti per la tutela dei diritti umani, sia messicani che internazionali (tra cui Amnesty International), denunciano l’impiego della tortura come pratica consolidata da parte dell’esercito e delle forze di sicurezza, e sottolineano l’impunità di cui tali corpi continuano a godere. Persino il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha recentemente condannato lo stato messicano per un caso di tortura perpetrato da membri dell’esercito contro quattro persone nel 2009 in Baja California. Solo uno dei tanti casi che evidenzia l’insieme di cattive pratiche in cui si innesta l’uso endemico e generalizzato della tortura in Messico, secondo quanto riportato da vari organismi di difesa dei diritti umani. Gli stessi organismi riportano anche 615 aggressioni contro donne difensore dei diritti umani, tra cui 36 assassinii, nel periodo che va dal 2010 al 2014.

Il Messico è anche uno dei paesi che registrano il più alto tasso di assassinii perpetrati nei confronti di giornalisti: il fotoreporter Rubén Espinosa è solo l’ultimo caso registrato, il corpo recante segni di tortura ritrovato lo scorso luglio in un appartamento della capitale, assieme a quello della compagna, l’attivista Nadia Vera Pérez e di altre tre donne. Sia Espinosa che Vera avevano ricevuto ripetute minacce di morte e per questo si erano allontanati dallo stato di Veracruz per stabilirsi a Città del Messico. Nadia aveva persino denunciato ad una rete televisiva indipendente che se le fosse accaduto qualcosa, il responsabile sarebbe stato il governatore di Veracruz, Javier Duarte.

In uno scenario tanto drammatico, l’informazione, l’attenzione e la mobilitazionea livello internazionale restano uno dei pochi ma fondamentali strumenti a disposizione affinché si cerchi di fare luce sugli ormai troppi casi di violazione dei diritti umani in Messico.

Michela Giovannini

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