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domenica 13 settembre 2015

Birmania, quelle nuove leggi che attaccano la libertà religiosa

Vatican Insider
Mentre il paese si prepara alle elezioni democratiche dell’8 novembre, un pacchetto di nuove disposizioni rischia di alimentare tensioni tra buddisti e minoranze musulmane e cristiane. La Chiesa dissente
Il passaggio elettorale che la Birmania si appresta a vivere, l'8 novembre prossimo, sarà «un punto di svolta decisivo per il paese». Hanno la medesima opinione due personaggi pubblici di alto calibro nel paese della pagode, la leader per i diritti umani Ang San Suu Kyi e il cardinale Charles Maung Bo.

Si tratta di un passaggio democratico fondamentale, un passo storico che dovrebbe permettere alla Birmania di voltare pagina, dopo gli anni della dittatura militare, e di aprire una nuova era in cui si spera che possano trovare spazio valori come i diritti umani, le libertà individuali, la dignità della persona, la pace e la giustizia.

E’ un passaggio che risulta determinante anche per l’avvenire delle minoranze etniche e religiose, finora penalizzate nella loro vita economica, politica, nell’aspirazione alla piena libertà religiosa e di espressione. Tanto più perché l’ultima eredità del vecchio regime è un pacchetto di leggi, appena ratificato dalla firma del presidente Thein Sein, dopo l’approvazione del Parlamento, che vanno a intaccare i diritti sociali dei credenti e gettano un’ombra sul loro futuro.

Le misure fanno parte di un pacchetto denominato «Leggi a protezione della razza e religione» promosso dal «Ma Ba Tha», gruppo di monaci buddisti estremista e nazionalista che negli ultimi anni è cresciuto in numero, visibilità e pretese, estendendo la sua influenza diretta, in questa fase di transizione, anche sulla politica.

Le disposizioni legittimano la discriminazione delle minoranze, soprattutto di musulmani e cristiani che costituiscono rispettivamente il 4% e l’8% della popolazione birmana, all’80% buddista. In particolare gli osservatori le collegano all’ideologia anti-musulmana che è chiaramente aumentata – nonostante gli sforzi dei leader religiosi e degli attivisti di fermarne l’ascesa – proprio da quando l'esercito, nel 2011, ha rinunciato ai pieni poteri e ha lasciato che nel paese partisse una stagione di riforme politiche, economiche e sociali.

Una legge anti-poligamia punisce quanti hanno più di un coniuge o vivono con un partner diverso dalla persona con cui hanno contratto matrimonio. Altre due disposizioni limitano la conversione e i matrimoni interreligiosi, prevedendo un vero e proprio «processo» per ottenere la licenza ufficiale di convertirsi da una religione un'altra e imponendo alle donne buddiste di chiedere un permesso speciale prima di sposare un uomo di un'altra fede.

L'ultimo provvedimento, approvato già a maggio scorso, regola il controllo delle nascite e dà alle autorità civili il potere di imporre alle donne una pausa di almeno tre anni tra un parto e l’altro, legittimando anche la contraccezione forzata. Misura, questa, tesa a fermare la presunta crescita demografica delle minoranze religiose.

Sono leggi «discriminatorie e pericolose per il processo di riforme in atto», ha sottolineato il relatore speciale Onu sui diritti umani in Birmania, Yanghee Lee. «Aumentano le possibilità di gravi tensioni fra comunità diverse», ha osservato Phil Robertson, vice direttore Asia dell'Ong «Human Rights Watch».

Leggi che regolano pratiche sociali come matrimonio, divorzio, successione, dovrebbero essere parte di un diritto comune per tutti i cittadini birmani, indipendentemente da etnia e religione, ha ribadito un forum di oltre 180 organizzazioni della società civile, birmane e internazionali, che si sono fermamente opposte all'approvazione di queste leggi.

Aperto dissenso è stato espresso dalla Chiesa cattolica. Il cardinale Bo, arcivescovo di Yangon, ha chiesto al governo di «non interferire con il diritto individuale a scegliere e professare la propria religione», riconoscendo che le nuove leggi «limitano la libertà religiosa in Birmania in un momento in cui i cittadini stanno guadagnando libertà in altri settori». «La conversione è un fatto di coscienza, che nessuno può coartare», ha osservato.

Secondo Maurice Nyunt Wai, segretario esecutivo della conferenza dei vescovi birmani, «le nuove leggi non prendono direttamente di mira i cristiani», ma certo «potranno avere un impatto sui rapporti tra le comunità religiose in generale». «Nel lungo periodo – nota - potranno offuscare l'immagine del Buddismo e minare l'armonia tra le comunità religiose, accrescendo la distanza tra la maggioranza buddista e le altre minoranze».

Per questo, riferisce Shwe Lin, segretario generale del «Consiglio delle chiese» in Birmania, che riunisce le comunità protestanti, «i leader cristiani si incontreranno per discutere le possibili conseguenze».

Sta di fatto che, nel processo di costruzione democratica della nuova Birmania, queste disposizioni rappresentano un vulnus alle libertà che il nuovo governo sarà chiamato ad affrontare.

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