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mercoledì 20 maggio 2015

Malesia/Thailandia, continua l’odissea dei boat-people, cresce la richiesta di soluzione

MISNA
Ancora in mare dopo giorni di incertezza alla fine di viaggi durati fino a tre mesi, migliaia di Rohingya e di altri fuggiaschi da Myanmar e Bangladesh attendono al largo delle coste thailandesi, malesi e indonesiane di conoscere la loro sorte.
I rifugiati accalcati sulle navi al largo delle coste thailandesi
A loro resta preclusa ogni possibilità di sbarco, ma mosse diplomatiche e alcuni sviluppi locali potrebbero portare almeno a una soluzione umanitaria provvisoria alla loro sorte attuale che rischia di diventare una condanna a morte per molti.

Le Nazioni Unite hanno proposto al governo malese – che già ospita 120.000 rifugiati di cui 45.000 Rohingya – una maggiore cooperazione nella gestione dei campi profughi, sollecitando a non contemplare l’espulsione ma riaprire all’accoglienza. Proprio il governo di Kuala Lumpur è protagonista dell’iniziativa diplomatica che domani porterà a un colloqui tra i ministri degli Esteri dei tre paesi coinvolti dall’attuale crisi.

Il quarto, il Myanmar da cui partono la maggior parte dei boat-people diretti verso la Malesia transitando in massima parte dalla Thailandia, continua a negare ogni responsabilità nella situazione, non riconoscendo i Rohingya – musulmani in una nazione buddhista – alcun diritto di cittadinanza o di residenza, ma solo un’identità di immigrati illegali con diritto di transito.

Sono 140.000 i Rohingya rinchiusi in campi in Myanmar come conseguenza della persecuzione avviata tre anni fa, e altri 120.000 sono già partiti per una viaggio difficile e sovente dall’epilogo drammatico, gestito da agguerrite bande criminali.

Dopo un lungo silenzio che ha portato all’accusa di opportunismo nell’avvicinarsi delle elezioni d’autunno, nella serata di ieri il maggiore partito dell’opposizione democratica, la Lega nazionale per la democrazia dela Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ha rotto il silenzio per riconoscere la situazione.

Il portavoce del partito ha indicato che i Rohingya in fuga hanno diritto al riconoscimento dei propri “diritti umani” e ha chiesto al governo birmano di dare loro la possibilità di accedere alla cittadinanza. “Se non sono accettati, non possono essere gettati nei fiumi. Non possono essere spinti nel mare aperto. Sono esseri umani. Io li vedo sono come esseri umani che hanno diritto a diritti umani”, ha detto Nyan Win, interpellato sulla vicenda che interessa in modo crescente i 1,3 milioni di Rohingya alla fine di un incontro tra i partiti politici e il presidente Thein Sein.

[CO]

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