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mercoledì 29 aprile 2015

Intervista al Prof. Andrea Riccardi: Islam, migranti e integrazione

Europinione
Europinione, in collaborazione con Cultura Democratica, è lieta di intervistare il Prof. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Presidente della Società Dante Alighieri e già Ministro per l’integrazione e la cooperazione internazionale del Governo Monti

Andrea Riccardi
L’attuale scenario geopolitico internazionale non può più prescindere dalla minaccia terroristica di ispirazione islamica fondamentalista. I recenti avvenimenti, da Parigi alla Siria, dalla Nigeria all’Iraq, ci spingono a chiederci come possa un credo religioso indurre dei gruppi terroristici a sviluppare strategie volte al massacro di innocenti in nome del proprio Dio. Di base, o almeno in via superficiale, la distorsione di un pensiero religioso può dare una spiegazione. Tuttavia, non crede che questo aspetto possa essere inteso come fattore aggregante di un movimento teso a respingere la presenza culturale, economica e politica dell’Occidente in Africa e Medio Oriente?

In primo luogo direi che il terrorismo di cui stiamo parlando non è l’Islam, anche se si propone di esercitare un’egemonia sui musulmani rifacendosi all’antica immagine del Califfato. E’ soprattutto un movimento di potere con ambizioni territoriali, in Siria, Iraq e Libia, con minacce che si allargano verso l’Europa. La radice del terrorismo non è la religione, ma l’uso ideologico che se ne fa. Trova terreno fertile a volte in Europa tra gli immigrati di seconda generazione, come è accaduto ad esempio a Parigi, in cui giovani musulmani delle banlieue, cittadini francesi, hanno scelto il fanatismo. Le periferie delle megalopoli europee, ma anche italiane, sono diventate un detonatore di violenza, una mina che va disinnescata andando alle origini del disagio sociale.
A seguito degli attentati di Parigi, si è avuta una forte reazione da parte dei rappresentanti della comunità islamica, soprattutto di condanna nei confronti di Al-Qaeda e dello Stato Islamico. Secondo Lei, su quali basi è possibile avviare un solido dialogo tra le religioni monoteiste?

Nel cuore di ogni fede c’è la consapevolezza che il nome di Dio è pace. Al centro delle tradizioni religiose c’è il valore dell’uomo, la fraternità, il rispetto del creato. La reazione di qualificati esponenti delle comunità islamiche di fronte alle atrocità dell’Is, cui lei accenna, conferma che non siamo di fronte ad uno scontro fra Occidente e Islam, ma a una interpretazione fanatica e falsa dell’Islam che tenta di imporsi con la forza. Non va dimenticato che il terrorismo colpisce in egual misura, se non superiore, popolazione musulmana innocente.

La storia ci insegna che, già al tempo delle conquiste dei Califfi dopo la morte di Maometto, i conquistatori arabi instauravano rapporti di tolleranza verso i cristiani sottomessi, ai quali era permessa la libertà di culto dietro il pagamento di un tributo alle autorità. In effetti, anche il Corano ricalca in gran parte gli insegnamenti del Vangelo, in particolare la condanna dell’omicidio. Come è possibile che, dopo quasi mille anni, il rapporto di tolleranza e convivenza sia arrivato ad uno scontro frontale anche sul piano dogmatico?

Certamente nei secoli i cristiani hanno vissuto nei paesi a maggioranza musulmana. Il Corano, infatti, chiede rispetto per le “religioni del Libro”, ebraismo e cristianesimo. Certamente periodi di tolleranza si sono alternati a conflitti, in alcuni frangenti sfociati in guerra aperta. Oggi assistiamo ad un fenomeno nuovo e allarmante: il progetto di uno Stato totalitario musulmano, che rifiuta le minoranze e predica, anche con azioni violente, la cancellazione di ogni traccia di cristianesimo, così come distrugge monumenti di un passato ricco di cultura, patrimonio dell’umanità. In questo difficile momento le religioni hanno un ruolo, che può essere importante.

La Santa Sede ha sempre cercato il dialogo con i rappresentanti dell’Islam e dell’Ebraismo. Se in passato, soprattutto nel XX secolo, il confronto era volto ad ostacolare l’ideologia comunista, ritiene che questa sfida sia la nuova frontiera delle relazioni internazionali del Vaticano?

La Chiesa di papa Francesco non presidia frontiere, non eleva argini, ma costruisce ponti che mettano in comunicazione uomini e donne, comunità, culture. All’interno del suo progetto Papa Francesco dà un luogo importante al dialogo, anche con le religioni dei figli di Abramo, soprattutto per promuovere la pace.

Ponendo lo sguardo sul contesto politico italiano in materia, come bisogna considerare i partiti che strumentalizzano le vicende internazionali per scatenare un sentimento di avversione, se non di xenofobia, verso gli immigrati che arrivano in Italia attraverso il drammatico viaggio nel Canale di Sicilia? Ritiene che il nostro Paese sia dotato di un forte sentimento di accoglienza verso chi scappa dalla guerra e dalla fame, o c’è il rischio che sia predominante un sentimento di rifiuto?

Strumentalizzare a fini elettorali il tema dell’immigrazione è a mio parere un grave pericolo per il nostro Paese. Prima di tutto è un segno di quella “globalizzazione dell’indifferenza” denunciata da papa Francesco, che non tiene conto dei drammi umani che i profughi portano con sé e soprattutto chiude gli occhi sulle centinaia di vite perse nel Mediterraneo. Penso anche che soffiare sul fuoco dell’intolleranza e della paura verso lo “straniero” possa essere all’origine di una corrente xenofoba che percorre in qualche modo l’intera Europa con espressioni di violenza che contraddicono in profondità la cultura del nostro continente. Inoltre si tratterebbe di una politica miope, che riduce ad una emergenza quello che invece è un fenomeno globale, complesso, che va culturalmente compreso e politicamente governato. In molti casi non si è voluto capire che una politica di integrazione coraggiosa e lungimirante fa parte dell’interesse nazionale.

La Sua esperienza come Ministro per l’integrazione e la cooperazione nel Governo Monti aveva posto le basi per una nuova politica sociale nei confronti degli immigrati e delle fasce maggiormente disagiate della popolazione. Ritiene che la strada sia stata percorsa in avanti o c’è ancora troppa disattenzione, per non dire superficialità, su questa materia da parte delle Istituzioni?

Credo che, rispetto al fenomeno migratorio nel nostro Paese e in Europa, c’è stata in questi anni una colpevole sottovalutazione. La strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 aveva provocato un sussulto delle coscienze europee e, in Italia, aveva dato luogo all’operazione “Mare nostrum” che ha contribuito a salvare molte vite umane. La sua sostituzione con l’operazione “Triton” non si è rivelata una scelta adeguata alla gravità della situazione. Rafforzare, inoltre, la cooperazione economica con gli Stati africani per creare condizioni di sviluppo in loco potrebbe contrastare quest’esodo di giovani, spesso formati professionalmente, che rappresentano una vera emorragia che impedisce la crescita dell’Africa.

La Comunità di Sant’Egidio opera da decenni sia nell’accoglienza e la cura degli “ultimi”, nelle periferie e nei quartieri difficili, sia sul piano internazionale in un processo di pacificazione delle zone maggiormente a rischio e troppo spesso oscurate dai riflettori dei media e dall’opinione pubblica internazionale. È possibile lavorare o operare in un contesto dove la differenza religiosa è motivo di scontro? Oppure si può confidare in un sentimento di pace che travalichi il culto dei singoli popoli?

Non è possibile riassumere in poche battute l’attività a favore della pace di Sant’Egidio. Si tratta di una particolare forma di “diplomazia informale”, che opera in diverse aree di crisi in cui quella ufficiale è in difficoltà: dal Mozambico al Guatemala, dalle Filippine, al Malawi, al Centrafrica. Potrei dire che l’umanesimo pacificatore di Sant’Egidio si riassume nella frase “la pace è sempre possibile”. Partendo dal principio che il dialogo è la via maestra, anche le religioni possono dare un contributo determinante alla soluzione dei conflitti.
di Luca Tritto

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