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lunedì 2 marzo 2015

Pakistan - Quattro anni dopo la morte di Shahbaz Bhatti, il processo è in alto mare

Vita
Fu ucciso a Islamabad quattro anni fa perché difendeva Asia Bibi. I suoi assassini hanno confessato ma le violenze degli estremisti hanno bloccato la sua causa

Il processo di Shahbaz Bhatti procede a rilento, anzi, non procede proprio. Il ministro cattolico per le Minoranze è stato ucciso a Islamabad quattro anni fa, il 2 marzo 2011. La sua auto è stata crivellata di colpi nella capitale. Nonostante la polizia abbia arrestato i suoi assassini, che hanno ammesso di averlo ucciso perché «Bhatti ha difeso i blasfemi», cioè Asia Bibi, ingiustamente condannata a morte per blasfemia, non si è ancora arrivati alla soluzione del caso.
IL RIFIUTO DEL GIUDICE. Il processo è delicatissimo e chiunque venga coinvolto rischia la vita. Per uno degli accusati, Abdullah Umar, parzialmente paralizzato, è stato chiesta il 21 gennaio con una dichiarazione scritta l’assoluzione ai giudici dell’Alta corte di Islamabad perché il fatto non sussiste. Ma il giudice Shaukat Aziz Siddiqui si è rifiutato di ascoltare le parti per paura degli estremisti, trasferendo la patata bollente a un altro giudice e chiedendo di essere estromesso dal processo. Il caso ora è stato aggiornato alla metà di marzo, spiega The Express Tribune.

PROCURATORE UCCISO. Le paure del giudice sono giustificate, visto che l’attentato a Bhatti è stato subito rivendicato dal gruppo terrorista Tehrik-e-Taliban Pakistan. Il capo procuratore dell’Ufficio investigativo federale, Chaudhry Zulfiqar Ali, che si occupava del caso del ministro ucciso, è stato a sua volta assassinato il 3 maggio 2013 in pieno giorno a Islamabad. Per il suo omicidio sono stati arrestati tra giugno e agosto Abdullah Umar (che fa parte del Ttp) e i suoi complici: Hammad Adil, Adnan Adil e Tanveer Ahmed.
Tutti gli arrestati sono stati accusati anche dell’omicidio di Shahbaz Bhatti, delitto che hanno in un primo momento confessato. Abdullah Umar è l’unico ad essere stato rilasciato dal carcere su cauzione per invalidità permanente: il giovane infatti nella sparatoria con le guardie di Zulfiqar Ali è rimasto paralizzato.

MINACCE DI MORTE. Nonostante le confessioni, il caso è ancora in alto mare. Dopo l’omicidio del procuratore, anche il fratello di Shabhaz, Paul Bhatti, è stato minacciato di morte e ha dovuto lasciare momentaneamente il Pakistan. Secondo l’avvocato che sta portando avanti il caso del ministro cattolico per conto del fratello, Rana Abdul Hameed, «Paul Bhatti non può venire in Pakistan per le minacce di morte ricevute – spiega a The News -. Anch’io ricevo costantemente minacce di morte ma ho promesso a me stesso di portare il caso fino in fondo».

«NON SI VA DA NESSUNA PARTE». L’avvocato è lo stesso che ha difeso Rimsha Masih, giovane cristiana accusata di blasfemia e poi prosciolta, prima assoluta nella storia del Pakistan: «Mi arrivano lettere che mi consigliano di dissociarmi da questo caso. Mi scrivono: “Tu hai liberato Rimsha, ora cerchi di far condannare i nostri compagni, dovresti avere imparato la lezione”». Il problema è che «anche i nostri testimoni ricevono continue minacce di morte. Quand’è così, che cosa puoi aspettarti dal caso? Non andrà da nessuna parte».

IL TESTIMONE CHIAVE. Ad esempio, le persone che avevano affermato di aver visto Abdullah Umar sparare, al momento di comparire per accusarlo non si sono presentate. I difensori dell’imputato hanno quindi parlato di «evidenza» della sua innocenza, ma le parole dell’avvocato Rana Abdul Hameed fanno capire che sotto c’è ben altro. Anche la All Pakistan Minorities Alliance (Apma) ha dichiarato: «Minacce di morte sono arrivate anche al testimone chiave del processo».

QUATTRO ANNI DOPO. Per impedire che fatti simili si ripetessero, il legale di Bhatti ha chiesto di trasferire il processo a una più sicura Corte anti-terrorismo di Faisalabad. La richiesta è stata fatta il 22 ottobre 2014, riporta Newsweek Pakistan. La polizia di Islamabad ha inviato la richiesta ufficiale al ministero degli Interni ma finora non è stata prodotta alcuna risposta. E a quattro anni dall’omicidio del ministro cattolico, ancora non si è arrivati a nulla.

«UN POSTO AI PIEDI DI GESÙ». Ma le minacce degli estremisti non hanno cancellato la sua coraggiosa testimonianza. Scriveva nel suo testamento spirituale: «Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese».


Leone Grotti

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