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martedì 31 marzo 2015

Salerno - Vedova ridotta a chiedere l'elemosina: i vigili la multano. La Comunità di Sant'Egidio si indigna

La Città di Salerno
Come già raccontato dalla Città, Elvira fa l'elemosina per tornare in Romania dopo la morte del marito nelle acque di Campolongo quattro anni fa. La Comunità di Sant’Egidio si indigna


Stava raccogliendo le elemosine necessarie per tornarsene a casa, in Romania. Elvira, la 40 enne costretta a mendicare dopo che il compagno salernitano annegò per salvare le sue figlie, è stata fermata da una pattuglia della polizia municipale due giorni fa a Torrione. 

Era insieme al fratello, clochard come lei. I vigili hanno sequestrato l’incasso delle elemosine: 15 euro alla donna, 3 euro all’uomo. Più una multa da 250 euro, oltre il doppio del biglietto per tornarsene in Romania. Una decisione, quella di partire, figlia della disperazione, con il padre paralizzato e moribondo a Brasov, Transilvania. E una vita da cani non più sopportabile. La legge è legge, ammoniranno le istituzioni. Intanto il sequestro delle elemosine ostacola proprio il progetto di rientro della donna, che stava faticosamente raccogliendo qualche soldo per andarsene.

«Controlli contro la mendicità a Salerno non sono occasionali, non sono un esperto di diritto ma mi sembra un atteggiamento un po’ persecutorio –- lamenta Enzo Somma, responsabile della Comunità di Sant’Egidio – . Penso che siano altre le emergenze. Proprio in questi giorni papa Francesco ha ricevuto decine di senza fissa dimora, rom, immigrati a cui ha fatto visitare la Cappella Sistina. Mendicare non credo sia un reato, non dobbiamo difenderci dai poveri, una città non ha bisogno di mostrarsi forte con questi derelitti».

Somma ha visto ieri Elvira. «Era avvilita. Salerno è una bella città e non credo sia la presenza di poveri a toglierle dignità e decoro, semmai è la mancanza di umanità con cui si trattano. La sua parabola, donna integrata e lavoratrice finita per strada perché senza lavoro, potrebbe essere quella di chiunque». Quattro anni fa il compagno Luigi con cui abitava in una casa di San Cipriano, annegò per salvare due sue figlie che si erano avventurate a mare dopo pranzo. In poco tempo Elvira è finita a dormire sulle scale della chiesa e a vivere di carità. Dopo l’appello su “la Città”, un paio di persone si sono fatte avanti per aiutarla, almeno un contributo per il viaggio in Romania.

«Vuole ritornare per dare l’ultimo saluto al padre e poi decidere cosa fare – racconta Somma – Il viaggio costa cento euro a persona, qui ne riusciva a mettere da parte 30 alla settimana. Ricordo che a Salerno negli ultimi due anni sono morti tre mendicanti per strada. E due giorni fa a Nola ad un clochard dei teppisti hanno spezzato le braccia e le gambe».

Afghanistan: detenute in sciopero della fame da tre giorni, chiedono migliori condizioni

Reuters
Un gruppo di detenute afghane sono da tre giorni in sciopero della fame nella provincia centrale di Parwan, esigendo un miglioramento delle condizioni carcerarie e una riduzione delle pene. 

Lo riferisce 1TvNews. Nadira Gyahi, responsabile del Dipartimento provinciale per gli affari femminili, ha precisato che si tratta di una ventina di detenute che da giovedì rifiutano di consumare il cibo che viene loro consegnato.

Farmacisti USA contro la pena di morte - No a droghe per iniezioni letali

ANSA
New York - L'Associazione dei farmacisti Usa cerca di scoraggiare i propri associati dal fornire le droghe usate nelle iniezioni letali. 

Secondo l'Associazione, la fornitura di droghe per le iniezioni letali è contraria al ruolo del farmacista come fornitore di servizi per la salute. Le nuove norme adottate dall'Associazione dei farmacisti americani non rappresentano un divieto, perche' l'associazione non ha l'autorità legale per vietare ai membri di vendere droghe usate nelle esecuzioni capitali.

Riccardi: «Il 24 aprile la nostra preghiera per il genocidio degli Armeni»

Avvenire
La passione di Gesù ricorda che la sofferenza del Maestro non è un fatto isolato, ma continua tra i suoi discepoli. Questo è avvenuto in modo particolare nel XX e nel XXI secolo. È una realtà dolorosa di cui i cristiani hanno fatto fatica a prendere coscienza. Infatti una simile coscienza non solo chiedeva solidarietà per i perseguitati, ma anche una nuova concezione del cristianesimo nella storia. Soprattutto domandava che la storia del cristianesimo non fosse ridotta al nostro perimetro.

C'è stata (e rimane) una resistenza a ricordare in modo ravvicinato un martirio che svela il vero volto del cristianesimo e ridimensiona drammi e problemi dei cristiani del benessere. L'amnesia ha spesso anestetizzato la coscienza cristiana lungo il Novecento. Dimenticare tante sofferenze ci ha reso insensibili a molti altri dolori. Eppure questi anni sono stati un vero "secolo del martirio".
Il Novecento si è aperto con la strage di massa dei cristiani nell'impero ottomano durante la Grande Guerra.

Gli armeni lo ricordano ogni 24 aprile. In questo giorno, nel 1915, con l'arresto dei notabili armeni di Istanbul, iniziò la persecuzione che avrebbe spazzato via un milione e mezzo di armeni, assassinati, deportati in marce insensate e crudeli, internati in rudimentali campi della morte. Un mondo di chiese, quartieri, cultura e civiltà, laboriosità, fu distrutto in qualche mese. È Metz Yeghern (il Grande Male), come gli armeni chiamano il genocidio. Il 24 aprile 2015 ricorrono cent'anni dai massacri. La Chiesa armena lo ricorda canonizzando tutti i caduti armeni come martiri.

Questo centenario non riguarda solo la Chiesa armena. Tocca tutte le Chiese, perché – come insegnava Giovanni Paolo II – nel sangue dei martiri i cristiani sono già uniti. Forse le nostre Chiese locali potrebbero ricordare, almeno attraverso la preghiera, questo centenario di martirio cristiano che aprì il Novecento. Più volte la Cei ha richiamato i cristiani italiani a non dimenticare nella preghiera e nella solidarietà i perseguitati. Ebbene, i cristiani oggi colpiti in Medio Oriente sono spesso discendenti dei martiri del 1915. Qualche caduto nel 1915 (pochi), come il vescovo armeno-cattolico di Mardin, Maloyan, è stato beatificato. La maggior parte dei martiri sono anonimi. Ricordarli da parte delle nostre comunità cristiane sarebbe veramente opportuno, quando il secolo del martirio, cominciato nel 1915, si sta ripetendo. La preghiera è un degno ricordo. È anche un atto di giustizia dopo una lunga dimenticanza di tanto sacrificio.

Questa storia non è una vicenda turco-armena. Nel 1915 c'è stata la strage di tutti i cristiani: armeni ortodossi in prevalenza, ma anche armeno-cattolici, siriaci ortodossi e cattolici, caldei, assiri, e pure protestanti e cattolici latini. Il governo giovane turco (laico e nazionalista), al potere a Istanbul, volle una purificazione etnica degli armeni ortodossi, una strage preventiva accusandoli di separatismo.

Aveva garantito agli ambasciatori "cristiani" che sarebbero stati risparmiati gli altri ortodossi non armeni e i cattolici. Ma, per mobilitare i curdi e le masse anatoliche, fu usato l'odio religioso contro il giaour (l'infedele). Il disegno laico-nazionalista dei Giovani Turchi scatenò il fanatismo contro i cristiani in quanto tali. Quasi due milioni di morti. Finì un mondo di convivenza tra cristiani e musulmani. Fu Seyfo, il tempo della "spada": così lo chiamano siriaci, assiri e caldei.

Non mancarono giusti musulmani o yazidi che tentarono di salvare la vita ai cristiani, talvolta perdendo la loro. Fu però una immensa strage. Molti armeni e altri cristiani, specie donne, avrebbero potuto salvare la loro vita convertendosi all'islam: non lo fecero e morirono. Troppa polvere si è accumulata su questa memoria. Questo centenario avviene, proprio mentre le antiche ferite si sono riaperte con la persecuzione dei cristiani nel Vicino Oriente. La preghiera e la memoria delle nostre comunità nel giorno anniversario del genocidio sarebbe un segno importante nell'orizzonte difficile di oggi.

Immigrati - Roma - Brucia il centro d’accoglienza, 103 in salvo. Ipotesi incendio doloso

Corriere della Sera
Inagibile il palazzo-rifugio di via Amarilli, alla Rustica. Ipotesi dolo: le fiamme hanno distrutto gli uffici Rifugiati Gli ospiti - 62 minori - in altre strutture
Roma - Il palazzo è inagibile, i rifugiati sono stati ospitati presso altre strutture. E le indagini per accertare se l’incendio sia doloso sono appena all’inizio: c’è il sospetto fondato che le fiamme divampate nella notte di domenica 29 marzo nel centro d’accoglienza di via Amarilli, alla Rustica, siano state appiccate per motivi ancora sconosciuti. 

È una delle ipotesi dei carabinieri in attesa della relazione dei vigili del fuoco, intervenuti alle 24.30 per domare l’incendio scoppiato al primo piano dell’edificio, un ex rifugio per clochard contro il freddo trasformato in centro di accoglienza per nomadi e immigrati franco-marocchini, gestito dalla cooperativa Casa della solidarietà. All’interno del palazzo di tre piani si trovavano 103 persone - compresi 62 minorenni, due neonati, tre donne incinta e alcuni malati - che sono state fatte uscire dai soccorritori. Nessuna di loro è rimasta ferita.

Le fiamme sarebbero partite da alcuni locali in disuso propagandosi poi nella parte dove si trovano gli uffici degli operatori. A dare l’allarme sono stati alcuni rifugiati che hanno visto il fumo uscire dalle stanze e invadere i corridoi e la tromba delle scale. Il sopralluogo dei pompieri ha svelato la presenza di gravi problemi strutturali, in parte già esistenti prima del rogo: cavi elettrici volanti, parabole tv montate in maniera poco sicura, vetrate senza manutenzione. Da qui la decisione di dichiarare inagibile tutto l’edificio. Un’altra tegola nella galassia dell’accoglienza nella Capitale, dopo l’inchiesta sul «mondo di mezzo» che ha portato alla luce i traffici illeciti che si facevano sulla pelle degli immigrati proprio con l’assistenza e l’accoglienza. Per il sindaco Ignazio Marino l’incendio «è particolarmente grave. Sono preoccupato per un episodio che arriva in un momento in cui questa amministrazione sta smantellando un sistema su cui aveva investito anche la criminalità organizzata: mettere le mani in questo mondo ha costretto da qualche settimana sotto scorta l’assessore alle Politiche sociali Francesca Danese per le minacce ricevute».

L’«Amarilli» ha ospitato anche rom provenienti dagli sgomberi degli insediamenti di Casilino 900, La Martora e Ponte Mammolo. Al suo interno la cooperativa sociale Ermes era l’ente che si occupava dell’inclusione e dell’integrazione del minori. Le polemiche non sono mai mancate: nel 2014 si calcolava che ogni ospite della struttura costasse al Comune poco più di 900 euro al mese. Dall’associazione «21 Luglio» sottolineavano come «il “centro di raccolta rom”, uno dei tre a Roma (costati circa 6 milioni di euro nel 2013), risulta l’insediamento formale con la spesa procapite più alta a fronte di un investimento per l’inclusione sociale dei rom pari allo 0%».

di Rinaldo Frignani

Immigrazione: nasce la Commissione d'inchiesta sul sistema di accoglienza degli immigrati in Italia

ANSA
Roma - Nasce la Commissione d'inchiesta sul sistema di accoglienza degli immigrati in Italia, CIE, CARA, Centri di Prima Accoglienza voluta da Democrazia Solidale (PI-CD), da SEL e dal PD con tre disegni di legge poi approvati in aula sul testo unificato da Gennaro Migliore.

L'elezione a scrutinio segreto ha visto grande convergenza su Gennaro Migliore (presidente) mentre Marazziti e Patriarca saranno i vice presidenti (Segretari Palazzotto e Gadda).
Marazziti, dicendosi soddisfatto per la nascita della commissione, ha ricordato di averla sollecitata "con il mio disegno di legge all'indomani della tragedia di Lampedusa, che la Camera ha unificato con i disegni di legge Palazzotto e Fiano. 

Abbiamo un anno per capire perche' si sono create condizioni di invivibilita' e per aiutare il Paese a dotarsi di un sistema di accoglienza per immigrati e rifugiati, e selezione degli aventi diritto a rimanere nel nostro Paese, all'altezza delle tradizioni di solidarieta' e di rispetto della dignita' umana che fanno dell'Italia la porta dell'Europa".
"Spero - ha concluso - che la Commissione di inchiesta si pensi indipendentemente dalle appartenenze perche' abbiamo da svolgere un lavoro che serve al Paese e in cui deve esistere solo l'oggettivita' della verita' ricercata in maniera seria, senza pregiudizi. E penso che ci riusciremo".

Scatta ora X per chiusura Opg, parte la riforma ma strutture alternative in ritardo

Ansa
Nuove strutture, delicata gestione della fase transitoria
Nessuna proroga ha fatto slittare l'arrivo dell''ora X' per la chiusura degli ultimi ospedali psichiatrici giudiziari e martedì 31 marzo, dopo tre slittamenti in due anni, si compirà un altro passo fondamentale della riforma che ha portato alla chiusura dei manicomi, con la minaccia dei commissariamenti per le regioni che non organizzeranno l'assistenza alternativa. 

Ad oggi sono ancora in funzione, in Italia, 6 ospedali psichiatrici giudiziari. I detenuti sono 700, di questi 450 entreranno nelle nuove Rems, le Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, per gli altri si va verso le dimissioni o lo spostamento in strutture che dovranno ancora essere definite con percorsi di recupero personalizzati. ''Il problema più urgente da risolvere ora riguarda in particolare le persone che non hanno più famiglia e gli internati stranieri (circa 130 persone)'', ha ricordato il deputato Pd Edoardo Patriarca.

Gli Opg lasceranno spazio alle Rems, che prevedono un'assistenza solo sanitaria. Ma c'è chi, come la deputata della commissione Giustizia della Camera, Vanna Iori (Pd), teme che ora queste strutture si configurino come dei mini-opg. Le Rems, insomma, da sole potrebbero non bastare e il post-Opg sarà, secondo il giudizio di diversi, un processo lento, graduale e complesso. L'associazione Antigone ha già annunciato che i suoi osservatori monitoreranno questo processo che dalla fotografia che arriva dalle regioni appare ancora complessa e in divenire. I sei Opg ancora attivi sono localizzati in cinque regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Sicilia. Tra questi l'Opg di Castiglione delle Stiviere in Lombardia si trasformerà in struttura Rems, mentre gli altri Opg potrebbero - una volta concluse le operazioni di trasferimento degli internati - essere destinati ad altro uso. A Reggio Emilia esiste una struttura che, al momento, ospita circa 130 internati, dei quali 40 dell'Emilia-Romagna. Al momento i 40 internati di competenza dell'Emilia Romagna resteranno a Parma ed a Bologna, successivamente la regione dovrebbe dotarsi di una struttura Rems a Reggio Emilia.

All'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino il primo di aprile, con l'entrata in vigore della legge per il superamento di queste strutture, operativamente non cambierà niente, spiega la direttrice dello stesso Opg Antonella Tuoni. "Domani - afferma - lavorerò come sempre. Sabato scorso c'è stato l'ingresso di una persona proveniente da una comunità e non ho indicazioni su provvedimenti di trasferimento con l'assegnazione nelle strutture individuate dalle regioni''. Nel pomeriggio la Regione ha individuato sei residenze per ospitare gli internati: l'Istituto Mario Gozzini e la struttura psichiatrica residenziale "Le Querce" a Firenze (Asl 10 Firenze); la Comunità terapeutica "Tiziano" ad Aulla (Usl 1 Massa Carrara); la struttura residenziale "Morel" a Volterra (Usl 5); il modulo residenziale "I Prati" ad Abbadia San Salvatore (Usl 7 Siena) e il modulo residenziale in struttura terapeutico riabilitativa di Arezzo (Usl 8).

Chiude invece l'Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Ma il futuro dei 165 internati, tra cui dieci donne, ospiti dell'unico Opg della Sicilia resta un'incognita. Alcuni saranno destinati alle strutture carcerarie del territorio; quelli che hanno ancora bisogno di supporto psichiatrico dovrebbero essere trasferiti presso i vicini Rems a Naso (Messina) o a Caltagirone (Catania) che però non potranno ospitare più di 20 pazienti.

In Campania sono presenti due Opg: il più noto è quello di Aversa (Caserta) ed è intitolato al medico Filippo Saporito. Al momento sono 104 gli internati, 38 dei quali sono campani, 52 laziali e il resto provenienti da Molise e Abruzzo. L'altro Opg campano ha sede a Napoli (da qualche anno è all'interno della struttura penitenziaria di Secondigliano, dopo la chiusura della antica sede di via Imbriani): questa struttura ospita 87 persone. Le Rems sorgeranno a Calvi Risorta, nel Casertano, (sarà attiva dal prossimo primo settembre) mentre quella di Avellino sarà operativa dal 30 maggio.

lunedì 30 marzo 2015

Yemen - Raid aereo Saudita su campo profughi, oltre 20 morti tra i rifugiati

ANSAmed
Beirut - E' di oltre 20 uccisi il bilancio di raid aerei sauditi su un campo profughi nel nord dello Yemen, secondo quanto riferito da media panarabi che citano fonti locali. 

L'Unhcr parla di 15-20 morti e almeno 15 feriti, ma che si temono molte più vittime. Fonti dei ribelli sciiti, in conflitto con l'Arabia Saudita, parlano di 45 morti. Secondo i siti dei quotidiani panarabi, operatori umanitari yemeniti presenti nel campo profughi di Mazraq, nel nord dello Yemen, riferiscono della morte di 21 persone, tutti civili. 

Il campo si trova nella regione di Hajja, a ridosso col confine saudita dove da anni si trovano rifugiati civili fuggiti dalle violenze causate dalla decennale guerra tra il governo centrale di Sanaa e i ribelli Houthi, che a settembre hanno invece preso il potere con un golpe militare sostenuto dall'Iran. 

Fonti dei ribelli Houthi affermano invece che i civili uccisi nel campo di Mazraq sono 45 ma è impossibile verificare sul terreno le notizie.

Bangladesh estremisti uccidono il blogger Washiqur Rahman Mishu, il secondo in un mese

MISNA
Washiqur Rahman Mishu, un blogger del Bangladesh, conosciuto come Washiqur Babu , è stato ucciso questa mattina nella zona industriale di Tejgaon, nella capitale, da un gruppo di tre persone tra i quali due studenti di madrassa (scuola coranica), uno a Chittagong e l’altro a Mirpur, Dhaka, secondo fonti di funzionari della polizia metropolitana. La polizia ha detto di aver sequestrato tre macheti usati nell’attacco.

Washiqur Rahman Mishu
Un canale televisivo privato ha riferito ai giornalisti che Mishu, 27 anni, era un blogger e lavorava per una Ong. Sul suo sito di Facebook, Washiqur ha scritto più volte contro l’irrazionalità di molte credenze religiose. Salauddin, funzionario della polizia di Tejgaon, ha detto che Mishu è stato assassinato nello stesso modo con cui fu ucciso il blogger Rajeeb Haider, il 15 febbraio 2013, sempre alla capitale, nella zona Pallabi.

In questi ultimi due anni, Mishu è il terzo blogger ad essere ucciso a Dhaka da estremisti islamici e a solo un mese dall’uccisione di Avijit Roy, un blogger e scrittore bengalese laico, con cittadinanza americana, assalito a Dhaka mentre usciva dalla Fiera nazionale del Libro. Un tribunale Dhaka il 18 marzo ha accusato il capo di Ansarullah Bangla, un gruppo radicale messo al bando, e sette studenti di una università privata per l’omicidio di Haidar, mentre un’altra inchiesta del Federal Bureau of Investigation (Fbi) è ancora in corso per individuare i responsabili.

“Presumo che estremisti islamici hanno ucciso Washiqur Rahman e sono stati incoraggiati da una cultura dell’impunità. Nel paese, gli atei sono una minoranza e non hanno alcun potere per chiedere giustizia da parte del governo ” ha detto Alam Pervez, un blogger di Dhaka. “Se continua così, – ha aggiunto Alam – altri blogger saranno uccisi per mano di radicali. a meno che non ci sia una volontà politica di salvarli”.

Detenuto italiano, 45 anni si suicida nel carcere di Sollicciano, aveva paura per sua incolumità in libertà

La Repubblica
45 anni, italiano, si è suicidato. Aveva manifestato preoccupazione per la sua incolumità una volta in libertà
[...]

"Si tratta - afferma Beneduci dell'Osar - dell'ennesimo grave episodio occorso presso il centro clinico di Firenze Sollicciano. Il detenuto suicidatosi questa notte sembrerebbe avesse manifestato più volte il proprio disagio e preoccupazioni per la propria incolumità fisica una volta uscito dal carcere, tant'è che ne sarebbe stato chiesto più volte il trasferimento ad altra struttura della regione senza concreti riscontri da parte del competente

provveditore regionale".

"Peraltro - conclude Beneduci - i dati in nostro possesso darebbero la Regione Toscana quale quella con il più alto numero di morti in carcere, benché non con il più alto numero di detenuti presenti, ma nessuno ha mai ritenuto di approfondire ed accertare le responsabilità del caso anche rispetto alle modalità di gestione/organizzazione degli istituti di pena toscani".

Maratona Betlemme, palestinesi reclamano 'Diritto al movimento' contro blocchi e muro

ANSAmed
Ramallah - Anche quest'anno migliaia di persone si sono date appuntamento a Betlemme, nei Territori occupati palestinesi, per partecipare alla "Maratona di Betlemme: Diritto al Movimento". 

Un palestinese corre la Maratona di Betlemme, 
passando vicino al muro di separazione.
La competizione - che vuole simboleggiare anche l'aspirazione dei palestinese alla fine dell'occupazione e delle limitazioni imposte da Israele - ha attratto sportivi da Gerusalemme, Nablus, Ramallah e ha visto la partecipazione di rappresentanti di 51 nazioni che si sono confrontati sul percorso cittadino lungo le principali attrazioni artistiche e storiche della città, ma anche tra i campi profughi di Deisha e Ayda. 

Giunta alla terza edizione, la maratona è organizzata dal Comitato Olimpico Palestinese e dall'associazione danese 'Right to Movement', con l'intento di porre l'accento sulle difficoltà di libera circolazione dei cittadini palestinesi a causa delle restrizioni iseaeliane. Tra queste, una serie di checkpoint e la barriera di separazione che circonda parte della città cristiana, il cui territorio resta per l'85% classificato area C, sotto completo controllo israeliano, fin dagli Accordi di Oslo. 

Oltre alla classica maratona (42,195 km) i partecipanti si sono confrontati sulla mezza maratona e sulla più abbordabile 10 chilometri. Altissima è stata la presenza di giovani palestinesi, soprattutto ragazze, che gli organizzatori valutano intorno al 40%. 

"E' bello fare qualcosa di normale come partecipare ad una maratona, mi fa sentire uguale a tutti gli altri ragazzi stranieri che sono qui oggi" dice con il fiato ancora corto Huzma, diciannovenne di Gerusalemme, alla linea d'arrivo. 

A differenza degli anni passati, Israele ha concesso, tramite il Cogat (Coordinamento delle Attività Governative nei Territori), ad un nutrito numero di fondisti di Gaza (46) -tra i quali il vincitore della maratona Abed El Nasser Awajneh- di partecipare alla competizione. Gli organizzatori avevano originariamente fatto richiesta di permesso per 55 corridori.

''Fin dall'inizio abbiamo fondato la manifestazione per richiamare l'attenzione sulla mancanza di libera circolazione dei palestinesi, ma oggi, l'assenza di attenzione verso l'occupazione dimostra una progressione verso la normalizzazione: la gente ha incominciato ad accettare l'occupazione come una parte normale della loro vita quotidiana" ha denunciato ai media Signe Fisher, una delle organizzatrici dell'evento. "La maratona di Betlemme mette tuttavia in luce come la libertà di movimento donne, uomini, ragazzi e ragazze palestinesi continui ad essere severamente limitata sotto la prolungata occupazione militare israeliana", ha dichiarato da parte sua in un comunicato James W. Rawly, coordinatore degli Affari Umanitari delle Nazioni Unite nei Territori occupati (OCHA)

di Michele Monni

USA - Clinton Lee Young nel braccio della morte in Texas da sempre si dichiara innocente

Blog Diritti Umani - Human Rights
Clinton Lee Young, è un detenuto nel braccio della morte del Texas che si è da sempre dichiarato innocente.

Clinton Lee Young
Ad un primo approccio al caso si ha l'impressione che qualcosa non torni. Se si approfondisce i dubbi aumentano a dismisura; si ha la sensazione che tutta la vicenda sia pervasa da una serie di coincidenze sfortunate e decisioni sbagliate, ma soprattutto, e più grave, costellata da falsità, giochi politici e di potere atti ad ottenere una condanna a morte ad ogni costo.
All'epoca dei crimini, Clinton Lee Young era appena maggiorenne, se avesse avuto 4 mesi in meno non avrebbero potuto chiedere la pena di morte. Entrò alla Polunsky Unit a soli 19 anni.
Nella fase investigativa pre-processuale di sicuro non hanno giocato a suo favore la sua età (il più giovane), il basso status socio-economico (il bersaglio più facile), la poca conoscenza degli altri individui coinvolti nella vicenda, il suo rifiuto a collaborare dovuto principalmente all'ignoranza e il pessimo lavoro della polizia (scene del crimine non investigate, prove non testate o addirittura perse).
Prima del processo è stato dichiarato indigente e gli sono stati nominati dei difensori d'ufficio che non avevano né i mezzi né le capacità per attuare una difesa efficace e furono oltretutto ostacolati da azioni non etiche dell'accusa.
Al processo non sono state ammesse le prove che lo scagionavano e sono stati rifiutati molti dei testimoni a discarico.
L'investigatrice della difesa che ha lavorato sul caso fino al 2005, ed è stata poi assunta dall'avvocato che si occupava del ricorso di Habeas Corpus, a causa della sua malattia mentale e dell'assunzione di droghe ha creato dei danni tali da far rigettare la richiesta d'appello.
Lo staff legale era stato nominato dalla Corte che si rifiutò di cambiarlo anche dopo le numerose e motivate richieste di Young.
Il giudice che si occupò del caso aveva provato ad ottenere la pena di morte in ben altri 7 casi precedenti.
I fatti di cui Clinton Lee Young è accusato sono avvenuti nel 2001 nella Contea di Midland, anno in cui venne eletto presidente George Bush junior che là era in parte cresciuto e aveva ancora una residenza.
Erano passati più di 20 anni dall'ultima volta che erano riusciti ad assicurarsi una sentenza di morte in quella Contea, di sicuro la situazione politica e logistica è stata una forza propulsiva importante per cercare di ottenere ad ogni costo una pena di morte.
Il caso dello Stato contro Clinton Young si basò soprattutto sulle testimonianze degli altri tre uomini coinvolti.
Anche se le versioni dei co-imputati non combaciavano tra loro, fu loro permesso di leggere l'uno le dichiarazioni dell'altro prima di testimoniare in tribunale in modo da poter dare delle versioni più simili tra loro. Questo successe anche con altri testimoni durante la fase decisionale della condanna.
Due dei coimputati fallirono il test della verità richiesto dall'accusa stessa.
Ai co-imputati furono concessi patteggiamenti in cambio della loro testimonianza. Gli accordi furono segretati dallo Stato (la giuria non ne era a conoscenza e il PM ne aveva il controllo).
Successivamente i co-imputati non solo hanno ammesso l'esistenza dei “patti segreti”, ma hanno anche dichiarato di aver mentito per ottenere accordi migliori. Uno di loro si è persino vantato con più persone di averla fatta franca, ha ammesso di indossare i guanti mentre sparava e che Young dormiva durante uno degli omicidi.
I precedenti penali minorili, dovuti soprattutto alla ADHD (sindrome da deficit di attenzione e iperattività) e risalenti ad un periodo particolarmente burrascoso in cui Young veniva sballottato da un istituto all'altro, da un genitore all'altro, sono stati presentati in modo fazioso e i testimoni manipolati per far apparire l'imputato violento e pericoloso per la società in modo da giustificare la richiesta della pena di morte.
Quello che manca a sostenere questa condanna sono le prove forensi che, anzi, sembrano scagionare l'imputato: le analisi balistiche e il rapporto dell'autopsia dimostrano che non può essere stato Young a sparare. Tuttavia questi rapporti balistici non vennero ammessi come prova al processo. Una delle giustificazioni della corte fu quella di dichiarare Richard N. Ernest, uno dei maggiori tecnici balistici del mondo, non abbastanza qualificato in questo caso, mentre in altri dibattimenti sono state proprio le sue conclusioni a spedire molte persone nel braccio della morte e a farle giustiziare. I guanti non furono adeguatamente analizzati tanto da scoprire al loro interno un proiettile solo molto tempo dopo il loro ritrovamento.
Incaricando un team legale incompetente e non non adottando standard appropriati di valutazione, la corte ha, di fatto, negato a Young una giusta e qualificata difesa e, in seguito, l'opportunità di far ricorso in maniera appropriata contro la condanna e la sentenza. Clinton Lee Young è stato condannato a morte tramite un processo non equo e basato sulle sole prove testimoniali dei co-imputati.
Ma non è tutto qui: “I giurati, nel corso delle discussioni, nella fase punitiva della deliberazione, spedirono una domanda al giudice. Con la loro domanda tutti, in aula, seppero che alcuni dei membri della giuria nutrivano dei dubbi sul fatto che fossi io il vero assassino di Samuel Petrey. Ma dovevano far fronte alla LAW OF PARTIES che è molto difficile da sconfiggere!” (Clinton Lee Young, Loud and Clear, 11 marzo 2011)
La Law of parties, legge delle parti ovvero dei complici, per chi non la conoscesse, permette di chiedere la pena di morte anche per chi non è l'esecutore materiale ma solo complice, anche inconsapevole, del crimine.
Per definizione il “complice” non è l'esecutore materiale e una persona non può essere tutte e due le cose contemporaneamente nello stesso omicidio. Viene da domandarsi con quale logica e in base a quale principio giuridico questa legge è stata applicata al caso di Young visto che lui è stato processato e poi riconosciuto come l'unico esecutore materiale del delitto.
La formula della Law of Parties di cui la giuria l'ha accusato al processo riguarda l'essere stato un attore diretto nell'aiutare a commettere gli omicidi.
In questo modo viene implicitamente affermato che Young non ha commesso gli omicidi, ma che sapeva che il coimputato li avrebbe commessi e che lo aiutò. Non esiste nessuna prova di ciò, anzi Young dichiara di aver scaricato la pistola e che ovviamente non poteva sapere cosa avrebbe fatto l'altro; il co-imputato, da parte sua, dichiara che è stato Young a commettere gli omicidi. Quindi dove sono le prove che sostengono l'applicazione della Law of Parties?
“Non sono un angelo ma non ho mai ucciso nessuno.”
“La mia domanda non è se credi che la pena di morte dovrebbe essere abolita o no. È: “Credi che ogni uomo e ogni donna dovrebbero ricevere un giusto processo ed essere tutelati da ingiusta azione giudiziaria?”
“Anche SE non credete che io sia innocente, il solo fatto che io non abbia avuto un processo equo dovrebbe bastare perché voi mi sosteniate per avere un nuovo processo. Questo è ciò che chiedo. Questo è quello per cui combatto. Voglio un nuovo processo in modo da poter ripulire il mio nome.”
Fin da quando è arrivato nel braccio della morte Young si è dedicato a qualsiasi forma di resistenza nei confronti del sistema oppressivo in cui è costretto a vivere e alla divulgazione dei difetti del sistema giuridico inizialmente collaborando ad“Uncensored” e poi scrivendo il suo blog dal titolo: “Loud and Clear”. Continua a lottare raccogliendo nuove prove e cercando di ottenere un nuovo processo. 

di Catia Ferrucci

Sul suo sito, www.saveaninnocentlife.com, oppure sul suo blog italiano.

Iran: 12 prisoners secretly executed in a day

NCRI
The Iranian regime's henchmen secretly hanged at least 12 inmates on Thursday (26 March 2015) in prisons in cities of Shiraz and Mashhad.

A group of 5 prisoners were hanged in a prison in the city of Mashhad in northeast Iran while another 6 were collectively hanged in Pirnia Prison in the city of Shiraz in southern Iran.

On the same day, another prisoner was also hanged in Adelabad Prison in the same city.

In Shiraz, the prisoners were transferred to solitary confinements two days prior to the Iranian New Year (Nowruz), therefore, the victims spent the New Year's day in isolation awaiting execution.

The religious dictatorship ruling Iran has refrained from publishing any report or information on the prisoners.

The growing number of executions, including many carried out in secret, are just trivial examples of the nationwide repression that continues to take place in Iran since Hassan Rouhani became president of the clerical regime.

Mr. Ahmed Shaheed, the UN Special Rapporteur on the situation of human rights in Iran, reported on March 25 that some 1000 executions had been carried out during the past 15 months in Iran.

Prior to that, on March 16, he told a news briefing in Geneva: "There is a lot of concern amongst the Iranian society that the nuclear file may be casting a shadow over the human rights discussion."

The U.N.'s special investigator added that the human rights situation and repression in Iran has worsened since Hassan Rouhani became president.

Rep. Centrafrica, 16 rifugiati rapiti, compresi dei bambini, dal Lord's Resistance Army

La Repubblica
Bangui - L'UNHCR rende noto e denuncia il rapimento di 16 rifugiati congolesi da parte dei ribelli LRA (Lord's Resistance Army), il cosiddetto Esercito di Resistenza del Signore in azione dal 1987, gruppo di guerriglia di ispirazione cristiana, che agisce soprattutto nel nord dell'Uganda, nel Sudan del Sud, nella Repubblica Democratica del Congo e, appunto, nella Repubblica Centrafricana. 


Al suo vertice c'è Joseph Kony, un personaggio tanto tragico quanto pittoresco, che dice di essere il portavoce di Dio e interprete delle volontà dello Spirito Santo. Il gruppo è nato nell'alveo della cultura del popolo Acholi, dopo l'avvento dell'incrollabile presidente ugandese, Yoweri Museveni, fondatore del National Resistance Army, e dell'instaurazione di un governo formato prevalentemente da gruppi etnici dell'Uganda meridionale. Dieci anni fa Kony fu accusato di crimini di guerra dalla Corte Penale Internazionale dell'Aia, ma finora è riuscito a sfuggire alla giustizia.

Tre bambini mancano all'appello. Il 21 marzo scorso i 16 congolesi, di cui 15 rifugiati, sono così finiti nelle mani dei cosiddetti "ribelli" dell' LRA, nelle aree al confine tra la Repubblica Centrafricana (RCA) e la Repubblica Democratica del Congo, dove stavano sorvegliando i propri terreni. Tredici di loro, 2 donne e 11 uomini, sono stati rilasciati dopo due giorni ed hanno subito raggiunto a piedi il campo rifugiati situato nelle vicinanze di Zemio, nel sud-est della Repubblica Centrafricana. Alcune delle vittime erano ferite e una ragazza di 16 anni è risultata vittima di violenza sessuale. Tre bambini rifugiati mancano ancora all'appello.

Sono ancora in stato di shock. Il campo rifugiati di Zemio ospita 3.400 rifugiati congolesi provenienti dal territorio di Ango (Distretto Bas- Uele), in Province Orientale, nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo. Già nel 2009 queste persone erano fuggite nella stessa provincia a causa delle atrocità commesse dai ribelli LRA. Tuttavia, questa settimana sono stati nuovamente vittime di violenze e torture. Subito dopo l'arrivo al campo, i rifugiati rilasciati sono stati trasferiti al centro sanitario di Zemio dove stanno ricevendo le cure mediche necessarie. Sono ancora in stato di shock e desiderosi di avere notizie sui rifugiati rimasti nelle mani dei ribelli. L'UNHCR insieme al partner International Medical Corps ha predisposto un servizio di assistenza socio-psicologica per aiutare le vittime ad affrontare il trauma subito.

Gli attacchi si sono intensificati. Inoltre, l'Agenzia intensificherà la diffusione di informazioni tra i rifugiati sulle condizioni di sicurezza, le attività dei ribelli LRA nella regione e i rischi associati all'attraversamento del confine tra i campi nella Repubblica Centrafricana e i propri terreni presenti nella Repubblica Democratica del Congo. Gli attacchi dei ribelli LRA nei villaggi al confine tra RCA e RDC si sono intensificati dopo l'arresto di Dominic Ongwen, uno dei principali comandanti dell'LRA, accusato all'inizio dell'anno di crimini contro l'umanità. Secondo i dati riportati da Catholic Relief Services, solo a febbraio l'LRA ha compiuto oltre 25 rapimenti in diversi villaggi nella parte nord-est della RDC, nelle vicinanze di Zemio e del confine.

Gli sfollati nelle aree con LRA sono 180 mila. Nel 2014, l'Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) ha riportato un aumento degli attacchi dell'LRA sia nella Repubblica Centrafricana che nella Repubblica Democratica del Congo, segnalando in particolare la crescita dei casi di sequestro: dai 346 del 2013 ai 566 del 2014. Gli sfollati nelle aree della Repubblica Centrafricana e della Repubblica Democratica del Congo interessate dalla presenza dei ribelli LRA sono più di 180.000. Più di 30.000 persone sono state costrette a fuggire nei paesi limitrofi per sfuggire alle violenze (9.232 rifugiati centrafricani nella RDC; 3.388 rifugiati congolesi nella CAR; 15.769 rifugiati congolesi e 2.047 rifugiati centrafricani nel Sud Sudan).

domenica 29 marzo 2015

Giamaica: reportage dal carcere di Tower street. L'assurdo caso di Clifton Wright

Il Manifesto
Sull'isola la quasi totalità dei detenuti poveri accusati di crimini gravi non ha mai incontrato un legale e ignora di aver diritto a una difesa. 

Carcere di Tower street
Lo scorso anno ci siamo occupati dello stato pietoso in cui versano le carceri in Giamaica ("Giamaica in scatola", il manifesto, 8 luglio 2014) all'interno di edifici che risalgono ai tempi dello schiavismo, tra detenuti senza cure sanitarie, celle prive di bagni infestate da scarafaggi e quant'altro. Siamo tornati laggiù per rilevare quella che è la deficienza più grave del sistema giudiziario: l'assenza del diritto internazionale alla difesa, che riguarda i casi dei prigionieri squattrinati. La storia di Clifton Wright, condannato a morte nel 1986, ne è l'esempio clamoroso.

Il percorso giudiziario giamaicano, si snoda essenzialmente lungo Tower street, la chilometrica Via Crucis che congiunge il carcere omonimo a King street, la strada dei tribunali di Kingston, con Corte suprema e Corte d'appello che si fronteggiano altezzose. A lato di quest'ultima, è la sede di Dpp (Department of public prosecution), il pubblico ministero. La via è una spina nel fianco di uno dei quartieri più poveri a downtown.

Prima di arrivare al sancta sanctorum della giustizia, abbiamo cercato con il lanternino le tracce di una difesa pro bono degna di questo nome. Tra casupole diroccate e tetti di lamiera zincata, al n° 131 ha sede il Legal Aid del governo, la difesa gratuita. Una saletta d'aspetto affollata di disperati, che aspettano pazienti, come solo i giamaicani sanno essere, il loro turno per conferire con Leroy Equiano, l'impalpabile paladino dei poveracci.

Il paladino (simbolico) dei poveracci
Quanto sia simbolico il suo ruolo di fronte alle corti di giustizia, lo testimonia lui stesso affermando che la quasi totalità dei detenuti poveri accusati di crimini gravi non ha mai incontrato un legale, o meglio, ignora di aver diritto a una difesa anche in mancanza d i soldi. [...]

Stiamo cercando la sentenza originale che ha condannato nel 1986 Clifton Wright, incontrato in prigione, a un incubo che dura già da 34 anni. Niente da fare. Rimbalzati agli Archivi generali, un'altra settimana persa. Solo dopo un mese di ricerche, spunta finalmente una fotocopia del documento, sopravvissuta all'interno della Corte d'appello.

Il "caso" Clifton Wright è una sentenza di morte per l'omicidio di Louis McDonald, scomparso il 28 agosto 1981, basata sulla singola testimonianza di un certo Cole; questi affermò di aver ricevuto un passaggio da Wright quella sera, e di aver notato, una volta sceso dall'auto, che puntava una pistola al collo dell'autista. L'uomo identificò Clifton in seguito a una procedura illegale: difatti la Corte prescrive che il teste proceda al riconoscimento dopo un confronto all'americana, tecnicamente noto come identification parade; un gruppo assortito deve sfilare davanti al teste, che ha il compito della scelta. Al contrario, Cole fu confrontato solo a Clifton Wright; nella stessa sentenza fu annotata tale anomalia. È evidente anche l'assurdità che un uomo, intento a rapinare un altro, dia un passaggio a uno sconosciuto.
Pestato e torturato con l'acido
Il corpo della vittima fu ritrovato il 30 agosto 1981. Il giorno prima, la polizia aveva già arrestato Clifton, in seguito a una segnalazione che egli fosse alla guida dell'auto di McDonald. L'uomo fu pestato e torturato con l'acido. Il verdetto trascura un dettaglio essenziale: il referto dell'autopsia del medico legale, il quale affermò la morte essere avvenuta nel pomeriggio di domenica 30 agosto, quando Wright era già detenuto da 24 ore. Non ve ne é traccia nel testo, e solo un'indagine di Iachr (la Commissione americana per i diritti umani) accertò nel 1988 questa macroscopica lacuna. Dopo tanto tempo, Clifton avrebbe diritto a parole, la libertà vigilata, oppure a una petizione da inoltrare al governatore generale, che ha facoltà di annullare la vecchia sentenza.

Allo stato attuale, dopo il nostro intervento, un noto studio legale di Londra guidato da Saul Lehrfreund, UK Director of Death Penalty Project, l'ufficio governativo inglese che assiste i casi di pena di morte, ha accettato l'incarico. E l'unica legale che abbia acconsentito a rappresentarlo pro bono sul territorio è Nancy Anderson, tutrice al la facoltà di legge dell'università di Mona a Kingston. Un'altra inglese.

Si contano migliaia di casi Wright in Giamaica; però riguardo a omicidi commessi dalle forze dell'ordine, la situazione si capovolge: prove inconfutabili, quali perizie balistiche e testimonianze multiple, sono spesso ignorate o cancellate dal giudice di turno; le difese hanno gioco facile a stravolgere la sequenza dei fatti. La regola di due pesi e due misure è sancita a livello istituzionale.

di Flavio Bacchetta

Lecce - La storia di Mary, obesa e disabile: “Io vittima di ingiustizie”. Rischia di perdere la pensione

TR News
Si sente abbandonata da tutti e vittima della burocrazia e di ingiustizie. Si chiama Mary, è una donna obesa di Lecce che vive da sola in un appartamento popolare. Ora teme che le venga tolta la pensione
Lecce - Un appartamento mal ridotto, tra muffa umidità e acqua che sgorga da ogni dove. Poi c’è lei, Mary Buscicchio, 52 anni, leccese, obesa e disabile. Una donna sola e abbandonata, rinchiusa nelle sue quattro mura domestiche ormai da 8 anni, e che a suo dire, è vittima quotidianamente di diverse ingiustizie.

L’ultima proprio in queste ore. Ogni due anni è chiamata per la revisione della pensione, e data la sua impossibilità a muoversi ha fatto richiesta di una visita a domicilio protocollandola con tutto il necessario, certificato medico incluso. Questa volta, avvisata da un’operatrice comunale, risulta che a quella visita non si è mai presentata, anche se lei aveva comunicato la sua impossibilità a recarsi sul posto. Risultato?

Ora rischia di perdere la pensione per un errore commesso da terzi…Mery ha solo bisogno di aiuto. Si sente sepolta viva in casa, in quello che chiama “ il suo loculo”.

Il suo appartamento è già stato dichiarato inagibile due volte, nel 2010 e nel 2011, ed ora la situazione è addirittura peggiorata. E’ stanca di queste ingiustizie e di non essere ascoltata.Vive da sola, non riesce a camminare se non con l’ausilio di un girello. Il suo peso purtroppo non le è d’aiuto e ora anche questo “errore” che le costerebbe la pensione.

Italia - Giustizia: indennizzi per ingiusta detenzione, 35milioni € nel 2014, +43% dal 2013. Tanti innocenti in carcere

Libero
Indennizzi per ingiusta detenzione? Un vero salasso, per lo Stato italiano. Oltre che un significativo indicatore di come troppo spesso, nel nostro Paese, finiscano dietro le sbarre degli innocenti, ritenuti tali dalle sentenze definitive. 


Le ultime, preoccupanti cifre le ha fornite lo scorso gennaio il viceministro della Giustizia, Enrico Costa.

E fanno impressione: nel 2014 lo Stato italiano ha speso 35 milioni e 255mila euro proprio per riparare a ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, vale a dire il 41,3% in più rispetto al 2013 (995 domande liquidate contro le 757 dell'anno precedente). Lo stesso Costa ha poi ricordato che in 22 anni, dal 1992 al 2014, l'ammontare complessivo delle spese per riparazioni dopo le ingiuste detenzioni è arrivato a 580 milioni e 715mila euro, per una media di oltre 26 milioni l'anno. Complessivamente, sono state ben 23.226 le liquidazioni effettuate.

La riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione è stata introdotta con l'emanazione del nuovo codice di procedura penale, nel 1988, ed è regolata dagli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale. La custodia cautelare in carcere è ingiusta (art. 314, primo comma) quando un imputato, all'esito del procedimento penale, viene prosciolto con sentenza di assoluzione diventata definitiva, ossia riconosciuto innocente per non aver commesso il fatto, o perché il fatto non costituisce reato, oppure perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Chi ha subito una ingiusta detenzione vanta dunque un diritto soggettivo, ossia quello di ottenere un'equa riparazione. Peraltro, chi è stato licenziato dal posto di lavoro che occupava prima della custodia cautelare in carcere e a causa di essa, ha diritto a essere reintegrato.

E l'entità dell'indennizzo come si calcola? Non può eccedere la somma di 516.456,90 euro. In genere, i tribunali calcolano circa 253 euro al giorno (più precisamente 253,83 euro), che si ottengono dividendo la cifra complessiva per 2.190 giorni, che corrispondono a sei anni, vale a due il periodo massimo di durata della custodia cautelare in carcere.

Nepal, dove aumenta di continuo la tratta di essere umani. Scomparse migliaia di donne.

Corriere della Sera
Katmandu – In Nepal, ogni anno, spariscono nel nulla migliaia di donne. Molte sono destinate al commercio illegale degli organi, altre vengono sfruttate e fatte prostituire. 


L’allarme è stato lanciato da uno studio effettuato dalla polizia del distretto di Kailali, nel nord del Paese. «La maggior parte delle donne scomparse ha meno di 40 anni», ha detto Kamala Bhatta, responsabile femminile della polizia locale. «Spesso le famiglie non ne denunciano neanche la scomparsa. Solo una minima parte si reca da noi per informarci. Alcuni non hanno abbastanza soldi per raggiungere il commissariato, altri hanno paura di essere accusati della vendita delle persone scomparse».

La situazione economica è molto rilevante. Spesso, infatti, sono proprio le famiglie più bisognose a vendere le ragazze alle organizzazioni criminali locali che poi si occupano di rivenderle in tutto il mondo. «Dovrebbero essere circa 5 mila le donne e le bambine che ogni anno scompaiono dal Paese», ha spiegato la responsabile della polizia locale. «Gli studi che sono stati condotti dimostrano che le ragazze sparite vengono utilizzate in tutto il mondo per lo sfruttamento della prostituzione o per la vendita degli organi». Nel mercato nero degli organi i più ricercati sono i reni, i polmoni e gli occhi.

Lo studio effettuato dalla polizia di Kailali rivela che solo nel proprio distretto, nel 2014, sono scomparse 118 donne. Altre 69 negli ultimi otto mesi. Nel distretto centrale di Tanahun, invece, sempre negli ultimi otto mesi, sono 82. Una delle tante, troppe storie drammatiche è quella di Maina Tamang, una ragazza del villaggio di Ghirling, nel distretto di Tanah, che da due anni non ha più notizie della madre e delle due sorelle. «Una sera non hanno più fatto ritorno a casa. Sono sparite nel nulla e ancora le stiamo aspettando».

«Per frenare i crimini legati al traffico di esseri umani e alla violazione di diritti umani fondamentali ci vuole l’impegno di tutti», ha dichiarato Ram Kumar Khanal, vice ispettore della polizia della regione settentrionale. «La polizia del Nepal ha lanciato diverse iniziative, ma tutte le persone, di qualsiasi estrazione sociale siano, devono partecipare in maniera attiva per garantirne il successo». Ma nonostante queste iniziative, come denunciano anche diverse organizzazioni umanitarie che lavorano nel Paese, le donne desaparecidos sono aumentano di continuo.

di Fabio Polese 

Carceri Camerun - Sant'Egidio: tanti diversi interventi per cambiare la grave situazione. Anni di prigione per il furto di un panino.

La Repubblica
Nel penitenziario di Maroua la Comunità di Sant'Egidio costruisce un moderno sistema di estrazione dell'acqua potabile. La dura realtà delle prigioni, tra minori condannati per aver rubato una mela e donne dimenticate dietro le sbarre senza processo. Alla fine della pena, chi non può pagare non esce
Milano - Scabbia, pene aggiuntive, fame, sete e detenzioni di anni per reati minimi. Piccoli furti come quello di una mela, di una barra di sapone o di due galline. È la quotidianità nelle carceri del Camerun. A Maroua, nel nord colpito dagli attacchi di Boko Haram, la Comunità di Sant'Egidio ha però realizzato un nuovo impianto idrico. Finora, mesi interi senz'acqua potabile, con la temperatura che nella stagione secca (da marzo a maggio) saliva a 40 gradi e le sbarre diventavano roventi.

Tra scabbia e sovraffollamento. "La vita ritorna nella prigione", ha detto commosso Mahaila, un anziano da trent'anni dietro le sbarre. Prima i tubi danneggiati e la mancanza di serbatoi permettevano alla poca acqua disponibile di raggiungere la prigione solo per alcune ore di notte, quando le celle erano chiuse e i prigionieri non potevano usufruirne. Inoltre, periodicamente la Comunità di Sant'Egidio finanzia la disinfestazione delle celle, dove il sovraffollamento è del 394% (987 persone per 250 posti). Le pessime condizioni igieniche facilitano la diffusione della scabbia, di cui sono affetti quasi tutti i detenuti, la tubercolosi, le malattie intestinali, l'aids e il colera.

Senza soldi non si mangia, anche i minori. Maroua è una delle dieci prigioni del Paese visitate ogni settimana dai membri di Sant'Egidio. Tutti camerunensi, che operano a titolo gratuito. Creano un legame personale con i carcerati e portano materassi per chi dorme sulla nuda terra, medicine, sapone, vestiti e cibo. Infatti si mangia una volta al giorno un piatto di polenta di mais, lasciando alla famiglia il compito di integrare il pasto: quando è lontana o troppo povera, il prigioniero rischia gravi stati di malnutrizione. Per i minori detenuti, spesso ragazzi di strada, Sant'Egidio organizza corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale, utili per il reinserimento nella società.

Dietro le sbarre senza processo per anni. La legge non pone limiti alla custodia cautelare e si può rimanere dietro le sbarre per anni, senza essere condannati. Succede quando l'accusato non può pagare un avvocato, senza il quale non si può avviare il processo, oppure perché il dossier sul caso resta "dimenticato" nel commissariato dove è avvenuto l'arresto. Christelle, 36 anni, era stata arrestata insieme ad altre cinque donne con l'accusa di aver rubato un sacco di riso. A un anno di distanza, nessuno aveva verificato l'accusa o cercato testimoni e il processo non era mai stato convocato. L'intervento della Comunità è stato quello di prendere contatto con l'accusatore, stabilire con lui un indennizzo (20 euro) e ottenere la scarcerazione.

Scontata la pena, chi non paga resta in carcere. "Il problema principale - spiega Luc de Bolle di Sant'Egidio - è quello di riuscire ad ottenere la scarcerazione anche quando sarebbe dovuta". Spesso in Africa la pena consiste in due parti, una detentiva e una pecuniaria. Per tornare in libertà è necessario pagare una somma di denaro che comprende anche il rimborso delle spese legali. Chi non può pagare resta dietro le sbarre più a lungo. "In Camerun - aggiunge il volontario - hai anche un obbligo ulteriore: terminata la pena, lavori in carcere per ripagare lo Stato dei soldi spesi per mantenerti durante la detenzione". De Bolle ricorda il caso di un ragazzino condannato a un anno per il furto di un panino: ha dovuto scontare sei mesi aggiuntivi proprio per questo motivo.

Liberare i prigionieri nelle carceri africane. In Camerun e in altri 14 Stati subsahariani, la Comunità di Sant'Egidio paga le spese per liberare alcuni detenuti che hanno terminato di scontare la pena. "Anche dopo l'uscita dal carcere - dice De Bolle - seguiamo il loro percorso, avviandoli a un lavoro". La cifra varia a seconda del Paese, da 200 a 500 euro. Così Josè, un ragazzo del nord del Mozambico, è tornato in libertà. Era stato arrestato a 16 anni per aver rubato una cassetta di frutta da un venditore ambulante. Lo avevano preso mentre scappava. In prigione è rimasto quattro anni, tre di più della pena che gli spettava. "Quando lo abbiamo conosciuto - spiegano dall'associazione - era in grave stato di denutrizione, pieno di piaghe".


di Stefano Pasta

sabato 28 marzo 2015

La violazione dei diritti umani in Uganda a causa della repressione del governo e dell'LRA

L'Opinione
Continuano le problematiche e le violazioni dei diritti umani e civili dell’Uganda a causa delle politiche repressive e opprimenti del governo e delle truppe paramilitari del LRA. 

Pochi giorni fa l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite ha reso nota la storia di un ragazzo di ventisei anni che nel 1999 venne rapito nel nord dell’Uganda, a 30 chilometri dalla città di Gulu. Sistematica è in Uganda l’instabilità governativa e la mancanza di giustizia per le vittime dei ribelli paramilitari. In migliaia sono stati rapiti, torturati, abusati sessualmente e costretti a lavorare come schiavi. La storia di Nancy Auma è la storia di molti ragazzi ugandesi.

Nancy fu mantenuto vivo dai ribelli, costretto a seguirli nelle loro marce della morte, obbligato ad eseguire gli ordini che gli venivano posti e vittima di torture fisiche con il taglio delle labbra, del naso e delle orecchie. Grazie al Programma delle Nazioni Unite per la pace nel Nord Uganda che ha fornito un contributo di 170.000 dollari alla Rete Giovanile Africana, Nancy è tra quei ragazzi, vittime di guerra, a cui sono state ricostruiti chirurgicamente le labbra, il naso e le orecchie. Sono 574 i beneficiari, uomini, donne e bambini, del programma delle Nazioni Unite, sottoposti alla chirurgia ricostruttiva, alla riabilitazione medica e alla consulenza psicologica per curare e rimediare all’orrore vissuto tra le fila del LRA. La Rete Giovanile Africana ha svolto un approfondito studio per l’identificazione delle vittime di guerra in tutta la regione e per produrre decisive azioni concrete di sostegno per il recupero di moltissimi ragazzi, soggetti di una completa violazione dei diritti fondamentali garantiti.

La metodologia di mappatura, adoperata dalla Rete Giovanile Africana, mira a visionare e valutare quali sono le zone del paese più colpite dalla guerra, soddisfacendo quelle che sono le esigenze mediche e chirurgiche primarie. Un elevato numero di bambini e adolescenti che avevano abbandonato gli studi e la vita sociale a causa delle deturpazioni hanno ripreso gli studi e a vivere, così come molte donne che per vergogna si erano separati dai mariti e dalla famiglia sono ritornate alla loto vita quotidiana. Le organizzazioni per la tutela dei diritti umani sperano che casi come quello di Nancy Auma possano un giorno cessare e contemporaneamente richiedono al governo dell’Uganda di modificare la propria legislazione sulla giustizia, la pena di morte e i diritti umani.

Dal 1938 al 2006 sono almeno 377 le persone giustiziate alla pena capitale rende noto il Rapporto 2014 sulla pena di morte nel mondo redatto dalla Ong “Nessuno Tocchi Caino”. Al dramma della guerra si aggiunge il dramma delle istituzioni repressive. Pessime le condizioni sulla giustizia e i diritti umani nel paese, nonostante autorevoli voci di dissenso. Nel Giugno 2012, rende noto Nessuno Tocchi Caino, il Servizio Prigioni dell’Uganda si è dichiarato contrario alla pena di morte, ricordando che lo scopo delle carceri è quello di riabilitare i rei, non di ucciderli.

Le istituzioni ugandesi legittimano l’esistenza di disposizioni che criminalizzano le relazioni omosessuali e permettono la pena capitale. L’Uganda ha respinto le raccomandazioni delle Nazioni Unite per l’abolizione della pena di morte e non ha sottoscritto la moratoria abolizionista. Un paese travolto dalla guerra intestina dei ribelli, protagonisti di numerose persecuzioni e contemporaneamente uno stato che mira ad essere autoritario e non rispettoso della dignità umana.

Immigrazione, ACNUR in Italia boom di rifugiati nel 2014, 64mila richieste di asilo, +148% rispetto al 2013

Firenze Post
Roma – Da vent’anni a questa parte in Europa e in Italia non c’erano mai state tante richieste d’asilo come nel 2014. L’ultimo flusso rilevante c’era stato ai tempi della guerra nei Balcani. L’Alto commissariato Onu per i rifugiati ha registrato per il 2014 866.000 richieste d’asilo in Europa, Usa, Australia e Giappone: +45% rispetto al 2013.

Italia – La Germania è stata la meta principale dei richiedenti asilo (173mila persone). Ma l’Italia, con 63.700 domande, rientra tra i Paesi che hanno avuto il maggior incremento: +148% rispetto al 2013, quando vennero registrate 25.700 domande. Si tratta soprattutto di cittadini maliani (9.800 domande), nigeriani (9.700), gambiani (8.500) e pachistani (7.100). Le decine di migliala di siriani ed eritrei sbarcati sulle nostre coste nel corso del 2014 si sono attivati molto poco. Tra i primi solo 500 hanno presentato richiesta d`asilo. E tra i giovani in fuga dalla dittatura dell`Asmara, appena 480 hanno deciso di fermarsi in Italia.

Svezia – Anche la Svezia, fra i Paesi europei, ha ricevuto 75mila nuove domande d`asilo (quattro su dieci i siriani). Siria e Iraq infatti sono i principali Paesi d`origine dei rifugiati in Europa. Uno su cinque viene dalla Siria (poco meno di 149mila domande d`asilo) e il loro numero è raddoppiato rispetto alle 56mila persone censite nel 2013.

ACNUR – «La nostra risposta deve essere generosa – commenta Antonio Guterres, alto commissario Acnur -. Garantendo accesso all`asilo, ai programmi di resettlement e altre forme di protezione per le persone in fuga da questi terribili conflitti». Carlotta Sami, portavoce dell`Acnur per il Sud Europa, si pone sulla scia che a suo tempo seguì la Boldrini quale portavoce dell’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Afferma infatti che «non si sta facendo abbastanza» per fronteggiare le crisi umanitarie in atto. Ci sono alcuni Paesi europei che hanno incrementato moltissimo la loro capacità  e disponibilità  di accogliere i rifugiati – aggiunge -. Ma ve ne sono alcuni che invece non stanno contribuendo. E noi crediamo che la responsabilità di gestire questa crisi deve essere di tutti». Sulla possibilità  di allestire campi d`accoglienza in territorio africano da cui possano essere inviate richieste d`asilo, Sami è possibilista: «Questa richiesta non è ancora stata avanzata in maniera diretta dall`Unione Europea, ma non abbiamo nulla in contrario, anche se ci sono delle condizioni che devono essere soddisfatte».


venerdì 27 marzo 2015

UNHCR denuncia condizioni disumane nelle carceri del Sud Africa, torture e percosse

Blog Diritti Umani - Human Rights
L'anno scorso, durante un'azione per contrastare il contrabbando nel carcere di massima  sicurezza di St. Albans  in Sud Africa, più di 200 detenuti sono stati costretti stare nudi per terra ognuno con il viso premuto nelle natiche dei vicini. Essi sono stati poi sottoposti a percosse, scosse elettriche e torture.
L'abuso non è stato un caso isolato. Secondo una denuncia presentata da ex detenuto Bradley McCallum con il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC), afferma che un incidente simile si è verificato a St. Albans nel 2005, dopo l'accoltellamento di un operaio in carcere. Nella sua denuncia, McCallum ha affermato che i detenuti sono stati costretti a giacere nudi uno addosso agli altri, poi sono stati spruzzati con acqua, morsi da cani e picchiati dalle guardie con bastoni e manici piccone. Ha testimoniato come fosse rimasto scioccato, picchiato e violentato con un bastone. 
In conseguenza del shock e della paura, ha detto, i detenuti urinato e defecato su se stessi e sugli altri.

[Fonte WPR]


Bulgaria: il Consiglio d'Europa denuncia "detenuti picchiati e vita nelle prigioni inumana"

Ansa
Essere arrestati in Bulgaria vuol dire correre il serio rischio di essere picchiati dalle forze dell'ordine. Mentre se si va a finire in carcere, si ha la certezza che si vivrà non solo in un luogo dove regna la violenza, ma inadatto a ospitare esseri umani. Questa è la terribile situazione, che ha spinto il comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa a pubblicare oggi un forte avvertimento alle autorità bulgare, colpevoli di non essere intervenute, per anni, per risolvere questi problemi.
Il Comitato, noto anche come Cpt, ha deciso di pubblicare l'avvertimento, che viene chiamato "dichiarazione pubblica", dopo essere andato in Bulgaria quest'anno e aver scoperto che la situazione è ulteriormente peggiorata e che le autorità non stanno facendo quanto dovrebbero. Nella dichiarazione pubblica il Cpt denuncia il crescente numero, rispetto al 2014, di denunce di maltrattamento, schiaffi, calci, manganellate, che ha ricevuto da persone arrestate.

"Dalla visita il Cpt ha concluso che uomini, donne e minori corrono il serio rischio di essere maltrattati, durante l'arresto e l'interrogatorio" si legge nel documento. Mentre per le carceri, che il Cpt negli ultimi 20 anni ha visitato tutte tranne una, il Comitato afferma che il maltrattamento dei detenuti da parte dei guardiani resta a livelli allarmanti e che questi maltrattamenti sono spesso inflitti deliberatamente. Resta inoltre "onnipresente" la violenza tra detenuti, mentre la corruzione nelle prigioni è "endemica".

Inoltre le carceri, dove molti dei detenuti vivono in meno di due metri quadrati, sono sempre più dilapidate. Il Cpt porta l'esempio delle cucine, infestate da vermi, insetti, e dove l'acqua delle fogne fuoriesce e cola ovunque. Il Comitato vuole quindi che le autorità agiscano e lo facciano urgentemente anche per rispettare gli obblighi che si sono assunte quando la Bulgaria è entrata a far parte del Consiglio d'Europa e poi dell'Unione Europea.

Nigeria: Ong dichiara 1.000 civili uccisi in un anno a causa del gruppo Boko Haram

Ansa Med
Boko Haram ha ucciso più di 1.000 civili quest'anno e centinaia di donne e ragazze sono state rapite e costrette a convertirsi all'islam e a sposare i miliziani. 


E' quanto afferma in un rapporto Human Rights Watch (Hrw), organizzazione per la difesa dei diritti umani con base negli Usa. Secondo Hrw, la popolazione delle aree investite dalla violenza è ormai alla disperazione, nonostante i recenti successi di un'offensiva multinazionale.

giovedì 26 marzo 2015

USA - Arizona - Madre innocente 23 anni nel braccio della morte: accusata dell'omicidio del figlio, oggi libera

Rai News
24 marzo 2015 Dopo 23 anni le hanno detto che si erano sbagliati, che aveva ragione lei quando diceva che non era stata lei ad uccidere il figlio Christopher di 4 anni nel 1990 in Arizona. Quei 23 anni Debra Milke, che oggi ne ha 51, li ha passati nel braccio della morte, condannata sulla base delle dichiarazioni di un agente di polizia. Nel 2013 la Corte di Appello ha ribaltato la sentenza e la scorsa settimana è arrivato il verdetto definitvo: è una donna libera.


La prova: la parola dell'agente corrotto
E' stato Armando Saldate - aveva già mentito ai giudici in quattro processi ed era stato più volte accusato di corruzione - ad affermare in aula che lei avesse confessato l'omicidio. Perchè? Non voleva tenere il figlio con sé ma nemmeno lasciarlo con il padre e voleva anche incassare l'assicurazione sulla vita di 5 mila dollari che aveva stipulato per il figlio. La giuria si è basata solo sulle parole di Saldate che sosteneva che Debra Milke avesse confessato. Di quella confessione però non c'erano prove: nessun testimone, registrazione. E Debra Milke è stata costretta a passare 23 anni della sua vita in carcere.

L'omicidio di Christopher
Dopo le feste il bimbo ha chiesto di vedere di nuovo Babbo Natale e il coinquilino della madre, James Styers, lo ha quindi portato nel deserto insieme ad un amico, Roger Scott. Lì, insieme ad un amico, lo ha ucciso con un colpo alla testa. I due sono ancora nel braccio morte mentre Debra Milke è stata considerata il mandante.

Ora la Milke fa causa alla polizia di Phoenix
Lo ha dichiarato il suo avvocato poco dopo la scarcerazione: commossa e finalmente senza fermo alla caviglia, Debra Milke ha deciso di fare causa davanti alla Corte Federale alla polizia di Phoenix inclusi i detective, l'intero dipartimento e la procura. Li accusa di numerose violazioni di diritti civili e di processo ingiusto.

E intanto lo Utah ripristina la fucilazione
Mentre la polizia finisce di nuovo sotto accusa per il caso Milke, la pena di morte torna a declinarsi nel modo più brutale nello stato dello Utah. Il governatore ha infatti deciso di ripristinare il plotone di esecuzione nel caso non possa essere eseguita l'iniezione letale, come già successso, per mancanza di medicinali.

Libia difensori dei diritti umani nel mirino dei gruppi armati

MISNA
I gruppi armati presenti in Libia hanno preso di mira i difensori dei diritti umani che cercano di far luce sugli abusi commessi nel paese: a sostenerlo è un nuovo rapporto delle Nazioni Unite che denuncia una serie di attacchi e minacce ai danni di attivisti e operatori umanitari.

A corredo della relazione congiunta, prodotta dall’ufficio Onu per i diritti umani (Ohchr) e dalla Missione in Libia (Unsmil), numerosi documenti e testimonianze di uccisioni, rapimenti, torture e altri maltrattamenti da maggio 2014 ad oggi. Tra i casi riportati, quello dell’uccisione di un’importante attivista della società civile, Entissar al-Hassaeri, a Tripoli. Il suo corpo e quello di sua zia sono stati trovati nel bagagliaio della sua auto il 23 febbraio scorso.

Inoltre – denuncia l’Onu – due membri della Commissione nazionale per i diritti umani, una organizzazione non governativa, sono stati rapiti il 13 e il 14 febbraio, nel centro di Tripoli. Entrambi da allora sono stati rilasciati, ma altri difensori dei diritti umani e membri della società civile risultano ufficilamente ‘dispersi’ o sono stati costretti a nascondersi.

“Tenuto conto dei rischi crescenti, delle uccisioni di difensori dei diritti umani di spicco e le minacce ripetute, in molti hanno lasciato il paese, si sono arresi al silenzio o sono costretti a lavorare di nascosto con grandi rischi per se stessi e i loro cari”, afferma il rapporto.

[AdL]

Dialogo cattolici sciiti Riccardi: "Un leader religioso che predica violenza, non è leader, né religioso"

Zenit
Intervista al fondatore della Comunità di Sant'Egidio, organizzatrice dell'evento di ieri che ha riunito cattolici e sciiti, a confronto sul tema della convivenza pacifica globale



Presso la Sala Congressi della Comunità di Sant’Egidio, nel corso di tutta la giornata di ieri, si è tenuta una conferenza che ha riunito rappresentanti della Chiesa Cattolica e delle istituzioni sciite. I partecipanti hanno affrontato il tema della “responsabilità dei credenti in un mondo globale e plurale” e del dialogo per la costruzione della pace in un momento storico segnato da molte crisi e conflitti sulla scena internazionale.

Interpellato da ZENIT, il professor Andrea Riccardi, fondatore e già presidente di Sant’Egidio ha detto: “Penso che tra mondi diversi dovremmo scoprirci a vicenda: oggi o c’è l’amicizia o c’è il conflitto, ignorarsi non è più possibile”.

Durante il suo intervento di chiusura della conferenza, Riccardi ha poi affermato: “un leader religioso che predica la violenza non è né un leader, né un religioso”.

Ha poi aggiunto che “le religioni che non sanno affrontare la globalizzazione sono destinate all’irrilevanza o al fanatismo”, perché oggi è necessario vivere nella comunicazione globale. Inoltre, con la globalizzazione, il mondo non è diventato ecumenico, né ha trovato la pace o la giustizia.

Che cosa è un cattolico per uno sciita e cos’è uno sciita per un cattolico? Nel rispondere a questa domanda, Riccardi ha riferito che, durante il congresso, un giornalista ha domandato il perché del congresso odierno e se vi fossero presenti immigrati sciiti: non aveva capito che, con la globalizzazione, “o vi è conflitto o vi è amicizia”.

Il fondatore della Comunità di Sant'Egidio ha detto che un “uomo globale deve essere più religioso, più credente di un uomo del Medioevo o di un contadino”, perché la nostra società globale ha un grande bisogno di religione e di valori spirituali.

“Il dialogo – ha proseguito Riccardi – determina l’ecologia del mondo. Se ci chiediamo perché serve il dialogo, potremmo chiederci perché serve la preghiera. Si semina oggi e si raccoglie tra cinque, dieci o più anni”.

“Vorrei che questo dialogo tra cattolici e sciiti – ha concluso - prosegua in modo tempestivo. Oggi è un primo incontro. L’incontro non ci lascia mai uguali a prima e dobbiamo sempre migliorare”.

Da parte sua, l’imam Jawad al-Khoei ha ricordato la partecipazione al congresso di ulema di vari paesi, tutti con grande influenza nella società, che hanno proposto idee molto importanti che riflettono il pensiero degli sciiti. Al-Khoei ha citato le parole del cardinale Jean-Louis Tauran, secondo il quale “non bisogna imporsi sugli altri”. L’imam ha aggiunto che imporre una costrizione nella lettura della religione è un segno di ignoranza. I leader religiosi sono accusati di essere la causa di tale costrizione, quindi del terrorismo, quando invece devono essere parte della soluzione; dobbiamo dare speranza ed ottimismo, per comprendere che il problema non è nella religione, ma nell’ignoranza della stessa. Per questo motivo non si può esigere uno stato religioso.

“Vi sono molti punti in comune tra gli sciiti e i cattolici - ha concluso - come il ruolo della ragione, la spiritualità e la moralità. In questo congresso abbiamo sottolineato l’importanza della dignità umana e abbiamo richiamato l’importanza della protezione dei valori e dei principi morali a tutti i livelli”.

La conferenza è stata organizzata congiuntamente dalla Comunità di Sant'Egidio e dalla Fondazione Imam al-Khoei, una fondazione internazionale associata alla massima autorità religiosa dell’Islam sciita iracheno, il grande ayatollah Al Sistani.

All’incontro hanno partecipato una decina di dignitari religiosi di primo ordine provenienti da Iran, Iraq, Libano, Arabia Saudita, Bahrain e Kuwait. Accanto a loro, eminenti autorità cattoliche, come il cardinale Reinhard Marx, presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea, il Cardinale Jean-Louis Touran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, e monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Insieme ad altri rappresentanti cattolici, hanno affrontato i temi del rapporto tra Stato e religione, del ruolo dei credenti nella società di oggi e delle prospettive di dialogo e di cooperazione per il futuro.

Turchia: "insulti" al presidente Erdogan, due vignettisti condannati a 11 mesi di carcere

Adnkronos
Due vignettisti turchi del popolare settimanale satirico Penguen, Bahadir Baruter e Ozer Aydogan, sono stati condannati a undici mesi di carcere con l'accusa di aver "insultato" il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. 

La vignetta incriminata
I due erano stati citati in giudizio il 21 agosto del 2014 a proposito della vignetta di copertina della rivista satirica sull'elezione di Erdogan alla presidenza della Turchia. Nel disegno appariva Erdogan che chiedeva ai funzionari del palazzo presidenziale di Ankara se avessero preparato "qualche giornalista da macellare", in riferimento al rituale del sacrificio nell'Islam, per celebrare la sua elezione.

Dopo la pubblicazione, un cittadino turco, Cem Safcier, ha sporto querela sostenendo che uno dei funzionari raffigurati nella vignetta e che accoglie Erdogan farebbe un gesto con la mano considerato offensivo nella cultura turca, ovvero starebbe a indicare che la persona alla quale viene rivolto è omosessuale. 

Il gesto disegnato, secondo la procura, va "contro le norme etiche e culturali della società turca" e "va oltre il diritto di critica, è un insulto". L'accusa aveva chiesto per Baruter e Aydogan due anni di carcere, diminuiti a 11 mesi e 20 giorni per buona condotta. Gli avvocati di Erdogan avevano riferito che il loro era stato un "insulto a pubblico ufficiale".

Nella prima udienza che si è svolta a Istanbul lo scorso 19 marzo, i due vignettisti si sono proclamati innocenti e affermano che il concetto su cui la vignetta ironizza non ha nulla a che fare con il gesto del funzionario, che sarebbe stato disegnato in modo casuale. "Se si guarda all'intera vignetta si può vedere che la battuta non ha nulla a che fare con quel gesto", ha detto Baruter. 

Non è la prima volta che Penguen finisce nel mirino di Erdogan, che ha già chiesto 40mila lire turche di danni per una serie di vignette nelle quali, quando era premier, venne rappresentato con le sembianze di vari animali. I disegni erano stati pubblicati in risposta a precedenti condanne di vignettisti dei quotidiani Cumhuriyet ed Evrensel, sempre per insulto a Erdogan. Sono oltre 70 le persone processate in Turchia per aver "insultato" Erdogan dalla sua elezione alla presidenza nell'agosto del 2014. Il reato di "insulto" viene punito in Turchia con tre mesi di carcere, ma se si tratta di un pubblico ufficiale la pena viene estesa a un anno.