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martedì 8 luglio 2014

Giamaica, viaggio nell'orrore delle carceri che risalgono allo schiavismo

Il Manifesto
In Gia­maica gli isti­tuti di mas­sima sicu­rezza sono strut­ture che risal­gono ai secoli dello schia­vi­smo. Come Fort Augu­sta, il car­cere fem­mi­nile, costruito dagli inglesi nel 1740 come for­tezza. Di poco più «gio­vani» i peni­ten­ziari maschili di St. Cathe­rine a Spa­nish Town, e Tower Street a King­ston. 

Una "lock up", la cella in cui i detenuti vengono
rinchiusi in attesa del trasferimento in carcere
Aldilà di alcuni inter­venti di cosme­tica esterna, e l’apertura di tre sale com­pu­ter nel 2005, le strut­ture riman­gono le stesse dei tempi che furono; un po’ per la cro­nica penu­ria di fondi, ma soprat­tutto per la fun­zione puni­tiva ad aeter­num che devono rap­pre­sen­tare. Dopo un’attesa durata oltre sei mesi, dalla pre­sen­ta­zione della domanda, siamo riu­sciti a entrarci.

Il 9 otto­bre 2012 i vari gruppi uma­ni­tari in Gia­maica (Jamai­cans for Justice, All-Sexuals and Gays e Stand Up for Jamaica) hanno dura­mente cri­ti­cato la deci­sione del governo di tra­sfor­mare il car­cere di South Camp Road in un cen­tro di deten­zione che ospita sia donne adulte che ado­le­scenti, lad­dove la Con­ven­zione sui diritti dei bam­bini (Crc) san­ci­sce la sepa­ra­zione asso­luta. Inol­tre tante gio­va­nis­sime con­ti­nuano a rima­nere ammas­sate nei lock-up (minu­scole celle, situate nelle sta­zioni di poli­zia e sedi giu­di­zia­rie), in attesa di tra­sfe­ri­mento in carcere. 

Que­sti per­tugi, che risal­gono anch’essi a tre secoli fa, accol­gono 10/15 dete­nuti per volta, lungo periodi che vanno da qual­che giorno, fino a diversi mesi. In alcuni casi ricor­dano la gab­bia dello sce­riffo dei vec­chi western, ma in altri, come nella fami­ge­rata police sta­tion di Fal­mouth, hanno solo un foro di aper­tura, chiuso da una grata, dal quale spun­tano, in cerca di spa­zio vitale, le brac­cia dei prigionieri.
L’ODORE TER­RI­BILE DELLA PAURAPrima di auto­riz­zare la visita, il Dcs (Depart­ment of Cor­rec­tio­nal Ser­vi­ces) vuole una let­tera con l’impegno a for­nire bene­fici tan­gi­bili al car­cere. Il Dcs, con i magri fondi elar­giti dal governo che bastano appena per il cibo e gli sti­pendi alle guar­die, conta sulle dona­zioni dei pri­vati e il sup­porto di ong come Stand Up, che a sua volta riceve finan­zia­menti dall’Unione Euro­pea e dalla Cvc (Carib­bean Vul­ne­ra­ble Communities).

Una volta var­cato il can­cello del St. Cathe­rine Adult Cor­rec­tio­nal Cen­tre, noto come Spa­nish Town Pri­son, si avverte un tanfo, misto di umi­dità e sudore della Paura, mate­ria prima del sistema car­ce­ra­rio in genere; l’olezzo, accen­tuato dalla cani­cola, è il primo segnale che siamo entrati in un altro mondo.

Prima del tour Mr. Reu­ben Kelly, il dina­mico diret­tore del peni­ten­zia­rio, snoc­ciola dati inquie­tanti con ina­spet­tata tra­spa­renza: l’istituto ospita 1120 dete­nuti, rin­chiusi in celle, che vanno da una a tre per­sone, 720 in totale. Oltre un migliaio di reclusi, costretti a spar­tirsi cin­que latrine e due docce. Non esi­ste distin­zione tra erga­stoli e reati lievi, tranne una secu­rity sec­tion, un reparto di sicu­rezza, avvolto da filo spi­nato, dove sono iso­lati i dete­nuti più peri­co­losi. Tutti insieme, anche i dete­nuti sani e i circa 50 sie­ro­po­si­tivi, una qua­ran­tina di malati men­tali, 200 dia­be­tici, oltre a nume­rosi casi di scab­bia. Tutti tranne gli omo­ses­suali, che, a causa della sem­pi­terna omo­fo­bia che affligge la Gia­maica, vivono in un set­tore sepa­rato, per la loro sicurezza.

Tranne le cure gene­ri­che, nes­suno gode di un regime sani­ta­rio par­ti­co­lare. La pre­ca­rietà delle misure igie­ni­che è il tasto su cui batte di più il diret­tore, che cerca aiuto per la costru­zione di una ven­tina di bagni nuovi. Rac­conta degli alla­ga­menti del sistema fogna­rio interno e il con­se­guente river­sa­mento dei liquami, soprat­tutto nelle aree di lavoro, con l’unico ven­ti­la­tore rotto.
La per­ma­nenza in cella è obbli­ga­to­ria dalle 18 alle 6 del mat­tino. Per il resto della gior­nata sono pre­vi­ste sei ore di lavoro, e le rima­nenti si divi­dono tra pasti e tempo «libero». Quando usciamo sul cor­tile, sono appena le dieci, ma il sole è già per­pen­di­co­lare al ter­reno; 38° all’ombra, magari ce ne fosse. Reti­co­lati ovun­que; in mezzo a due di que­sti, un cor­ri­doio in terra bat­tuta, dove alcuni reclusi gio­cano a cal­cio. La gente cion­dola in giro, si respira un’aria di ras­se­gna­zione, cemen­tata da una rou­tine che non sgarra di un mil­li­me­tro. Il tam-tam silente che intuiamo è: white men in visita, fate i bravi, che magari qual­cosa esce anche per voi.

Mark Levy, della gang «One Order», con­dan­nato per estor­sione, ci mostra un rigon­fia­mento mostruoso die­tro la nuca che lo tor­tura da nove mesi. Sem­bra un lin­foma, ma nes­suno si è preso la briga di visi­tarlo. Le guar­die che ci scor­tano ner­vose, lo allon­ta­nano. Solo due medici sono pre­senti sal­tua­ria­mente. Oggi non è repe­ri­bile nes­suno, per chie­dere rag­gua­gli. Pro­prio di fronte c’è l’ospedale pub­blico di Spa­nish Town, ma i rico­veri fuori dal car­cere sono vietati.

È il turno delle cucine; 4 steam units (unità a vapore) di cui solo due fun­zio­nanti. Pavi­mento in con­di­zioni pie­tose, tal­mente unto che si rischia di sci­vo­lare. Va un po’ meglio nel reparto bakery, il forno; ben tenuto e spa­zioso, offre una discreta varietà didou­gh­nuts, ciam­belle deco­rate con zuc­chero e mar­mel­lata. Per il pro­fumo che emana, lavo­rarci den­tro sem­bra un privilegio.
MENO MALE CHE C’È LA RADIO
Dal 2005, alcuni peni­ten­ziari gia­mai­cani, quali Spa­nish Town, Tower Street, e Rio Cobre Juve­nile, sono col­le­gati in rete. Spa­nish Town ha 11 com­pu­ter, però manca ancora la stam­pante. I reclusi pos­sono svol­gere ricer­che e tenersi aggior­nati, anche se vige il divieto di scam­biare e-mail con l’esterno, e di uti­liz­zare i social net­work. Sul retro della sala infor­ma­tica, dal 2009, tra­smette la sta­zione radio, Free Fm 88.9. La scuola è divisa in due sezioni, con turni dif­fe­renti. Il pro­blema è lo spa­zio: solo 140 dete­nuti hanno la pos­si­bi­lità di stu­diare, anche per la penu­ria dei libri di testo, caris­simi. Il «lusso» è dun­que ristretto al 10% dei reclusi. D’altra parte, anche nella Gia­maica libera, l’istruzione non è certo una prio­rità della ruling class, così la media nazio­nale di chi può per­met­tersi un’edu­ca­tion com­pleta, si riflette ine­vi­ta­bil­mente nel mondo som­merso delle car­ceri. Meno male che c’è la radio, almeno quella. Le fami­glie pos­sono ascol­tare la voce dei reclusi in streaming.

La gior­nata di vita pseudo nor­male, nei peni­ten­ziari dell’isola, ter­mina alle 18. Nelle 12 ore suc­ces­sive, l’uomo smette di esser tale; suben­tra la notte, e con essa, lo stato bestiale che lo accom­pa­gnerà fino al mat­tino suc­ces­sivo.
Le celle sono divise in quat­tro sezioni, alli­neate. Nella sezione A-1 c’è uno stretto cor­ri­doio, sul quale si affac­ciano le infer­riate delle celle; entriamo in una a caso, dopo aver chie­sto il per­messo al suo occu­pante. Dob­biamo abbas­sarci, per var­care l’entrata. All’interno, un ambiente di 4x2 privo di men­sole; gli oggetti per­so­nali del con­dan­nato sono sparsi sul pavi­mento. Le pareti sono tal­mente mal­messe che in diversi punti sono rab­ber­ciate con pezzi di com­pen­sato. Non esi­ste area­zione, l’unica aper­tura è quella delle sbarre. Cer­chiamo un water, o almeno una turca. Nulla.

Sia per le dimen­sioni che per la forma, la cella ricorda una sca­tola. Chie­diamo al suo inqui­lino come fa per i biso­gni. L’uomo mostra un gior­nale e una busta nera di pla­stica, quella che in Gia­maica chia­mano scan­dal bag. Il recluso deve defe­care nella carta e poi depo­si­tare il pac­chetto nella busta, dove resta fino al giorno dopo. Per uri­nare, una bot­ti­glia. Per le ablu­zioni, un sec­chio d’acqua; i sec­chi fuori for­mano una lunga fila di reci­pienti di pla­stica vario­pinta.
Gra­zie alla mol­ti­tu­dine di gatti ran­dagi i topi sono rari. In com­penso con il buio arri­vano i coc­kroa­ches, gli sca­ra­faggi carai­bici, mostri alati, con antenne e zampe pelose, e dimen­sioni che pos­sono arri­vare ai 10 cm. Le loro feci cau­sano sva­riate infe­zioni. I loro fru­scii sono la colonna sonora del condannato.

La sezione B-1 è anche peg­gio; il fetore ammorba l’aria, e lo stato esterno delle celle, causa gli into­naci mar­citi dalla muffa, ine­nar­ra­bile. Ascol­tiamo vari rac­conti dai reclusi: Clif­ton Wright è un gigante nero di oltre due metri. Con­dan­nato a morte nel ‘82, la sua sen­tenza è stata com­mu­tata in erga­stolo; sono 32 anni che è rin­chiuso qua den­tro. In Gia­maica, l’ultima con­danna a morte è stata ese­guita nel 1988, ma ci sono ancora dete­nuti in lista d’attesa. In seguito alle pres­sioni della Con­ven­zione Ame­ri­cana sui Diritti Umani, che lo Stato ha rati­fi­cato, que­ste con­danne sono state sospese, ma non annul­late. Mr. Wright ha sem­pre soste­nuto la sua inno­cenza, per cui, secondo la legge gia­mai­cana, non ha diritto a Parole (libertà vigi­lata, dopo aver scon­tato un certo periodo). Il suo legale, Mic­key Lorne, famoso per difen­dere Vybz Kar­tel (la star della dan­ce­hall, con­dan­nata all’ergastolo il 3 aprile) lo ha mol­lato, per­ché aveva finito i soldi.

In Gia­maica esi­ste un solo grado di giu­di­zio. Se un dete­nuto vuole appel­larsi, deve avere molto denaro per soste­nere la pro­ce­dura legale. Che l’uomo sia una Mdw (Mass Destruc­tion Wea­pon) o, al con­tra­rio, un novello Hur­ri­cane Car­ter (il cam­pione nero dei pesi medi rico­no­sciuto inno­cente dopo 20 anni di deten­zione) forse non lo sapremo mai.

L’upper-class, anglo­fona che con­trolla e pos­siede la Gia­maica, ha tanta ric­chezza tra le mani, ma non inve­ste sul rimo­der­na­mento delle pro­prie obso­lete strut­ture colo­niali, e poco comun­que sulle infra­strut­ture. Però soprat­tutto non inve­ste a livello di dignità umana. Il mar­chio d’infamia più grave, è quello di per­met­tere che un uomo, inno­cente o col­pe­vole che sia, debba essere bestial­mente degra­dato a defe­care in un gior­nale, magari per il resto della sua vita, ai fini di sod­di­sfare l’ansia di ven­detta di una società perbenista/post-schiavista, che per­pe­tra le nefan­dezze del passato.

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