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venerdì 31 gennaio 2014

Brasile: Corte suprema; carceri infernali, indegne di esseri umani, ma i politici non se ne interessano

Ansa 
Il presidente del Supremo tribunale federale brasiliano, Joaquim Barbosa, ha espresso dure critiche al sistema carcerario nazionale, che ha definito "un inferno" sotto il controllo delle gang di narcotrafficanti "del Primero comando da Capital e del Comando Vermelho". 


"Le carceri brasiliane sono inadatte per gli esseri umani. Lo scorso anno ne ho visitate alcune e la parola più adatta per definirle è: orrore.

I politici non si interessano delle carceri perché le carceri non garantiscono un ritorno, non portano voti", ha detto Barbosa, primo nero ad assumere la presidenza della Corte suprema brasiliana, nel corso di un incontro con gli studenti del King's College di Londra. La denuncia di Barbosa ha un ampio risalto sulla stampa brasiliana.

Venezuela: 500 morti nelle carceri nel 2013, comunque il 14% in meno rispetto all'anno precedente

Ansa 
Sono 506 i detenuti deceduti nelle carceri del Venezuela nel 2013, il 14 per cento in meno rispetto all'anno precedente. 

Carcere El Rodeo II - Venezuela
Lo sostiene nel suo rapporto annuale la Ong Osservatorio Venezuelano delle Prigioni (Ovp), secondo cui "è comunque un numero ancora troppo elevato".

Secondo lo studio, 616 detenuti sono rimasti feriti in ammutinamenti, risse e altri incidenti. Inoltre, nel 2013 il sovraffollamento è aumentato del 20 per cento: gli istituti con una capacità di 16.189 prigionieri ospitano attualmente 53.566 carcerati.

Devinder Pal Singh Bhullar: India court stays execution

BBC News
India's top court has stayed the execution of a death row prisoner, convicted over a 1993 bomb blast in Delhi which killed nine.



There have been protests in Delhi and London 
in support of Devinder Pal Singh Bhullar
Devinder Pal Singh Bhullar asked the Supreme Court to commute his sentence because there had been "an inordinate delay" in deciding his plea for mercy.

It comes after 15 prisoners had sentences commuted on similar grounds.

He has been on death row since August 2001. His plea, filed in 2002, was denied by the president in 2011.

Earlier this month 15 prisoners successfully got their death sentences commuted to life in prison on the grounds that it had taken too long for a decision to be reached in the plea for clemency.

The court added that mental illness and solitary confinement could also be reasons for commuting sentences.

Bhullar's lawyers approached the court again after this decision. They also say he cannot be hanged as he is mentally unsound.

As a result, the court has asked the hospital where Bhullar is being treated for a report on his health condition within a week.

In April 2013, the Supreme Court rejected a petition by Bhullar to commute his death sentence.

India has more than 400 convicts on death row.

Executions are rarely carried out, but in the last two years there have been two hangings in India.

Mohammed Ajmal Qasab, the sole surviving attacker from the 2008 Mumbai attacks, was executed in November 2012 in a prison in the western city of Pune.

And in February 2013, a Kashmiri man, Afzal Guru, was hanged in Delhi's Tihar jail for the 2001 attack on India's parliament.

giovedì 30 gennaio 2014

Egitto: giornalisti minacciati e arrestati. Il Paese nel caos

Il Mediterraneo
ROMA - Il 24 gennaio 2011 iniziavano in Egitto le prime proteste contro il regime trentennale di Mubarak. A distanza di 3 anni il Paese è ancora nel caos e completamente allo sbaraglio. Nel giorno dell’anniversario sono morte 49 persone e ne sono rimaste ferite almeno 247. Il potere politico, nelle mani dell’esercito, non risparmia di mostrare i muscoli e ha arrestato, soltanto sabato scorso, 1079 persone.


Il presidente egiziano ad interim Adly Mansour ha annunciato che le elezioni presidenziali saranno organizzate prima delle legislative, togliendo ogni ambiguità sul calendario della transizione promesso dall'esercito a inizio luglio dopo la destituzione dell'ex capo di Stato e capo dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi. Il calendario politico concordato dopo che l'esercito aveva deposto il presidente islamista, prevedeva che le elezioni parlamentari si tenessero prima dell'elezione di un nuovo presidente. L'annuncio di Mansour arriva dopo l'approvazione a larghissima maggioranza in un referendum popolare della nuova Costituzione.

In questa realtà drammatica e così complessa, il lavoro dei giornalisti è ad altissimo rischio. Il Committee to Protect Journalists (CPJ), nel suo rapporto annuale pubblicato il 30 Dicembre 2013, ha valutato l’Egitto il terzo paese più pericoloso al mondo per i giornalisti, dopo la Siria e l'Iraq. Considerando che la Siria è in una guerra civile e la situazione è estremamente tesa tra le varie fazioni irachene, la posizione dell'Egitto ha sollevato molte domande sul contesto attuale in cui i giornalisti lavorano.

Bangladesh - 14 condanne a morte per contrabbando di armi tra loro il leader del maggiore partito islamico

MISNA
Quattordici condanne alla pena capitale sono state comminate oggi dal tribunale di Chittagong contro altrettanti personaggi giudicati per un episodio di contrabbando di armi avvenuto dieci anni fa. Tra questi il leader del Jamaat-e-Islami, maggiore partito confessionale del paese, Motiur Rahman Nizami, arrestato a Dhaka il 29 giugno 2010 e da allora detenuto nella capitale.
Il 70enne Nizami e gli altri condannati avrebbero fatto parte del racket che cercò di fare entrare nel paese via mare 10 camion carichi di armi. Nizami, in particolare, che allora era ministro dell’Industria, avrebbe aiutato a scaricare nel porto di Chittagong nell’aprile 2004, 4.930 armi da fuoco di ultimo modello, oltre 27.000 granate e 840 lanciarazzi. Obiettivo della cinquantina di personaggi coinvolti, consentire che il carico arrivasse a un gruppo ribelle nel confinante stato indiano di Assam.

Tra i condannati a morte sono anche l’ex ministro dell’Interno Lutfozzaman Babar e i responsabili dei servizi di sicurezza. Condannato ma in contumacia perché da lungo tempo latitante pure Paresh Baruah, leader storico del movimento indipendentista United Liberation Front of Asom (Ulfa).

La sentenza è stata emessa in un tribunale fortemente presidiato per l’importanza del processo durato un anno e dall’inevitabile significato politico. Motiur Rahman Nizami, al tempo dei fatti addebitati era esponente di spicco del governo guidato dal Partito nazionalista del Bangladesh, di cui il Jamaat-e-Islami era allora alleato di governo.

Nell’ultimo anno, processi e condanne di personaggi di alto profilo, sia religiosi che laici dell’opposizione, oltre che le continue tensioni poitiche e sindacali, hanno posto il paese in una situazione assai difficile che nemmeno le elezioni del 5 gennaio, vinte ancora dalla Lega Awami guidata da Sheikh Hasina, hanno definitivamente acquietato. Le significative condanne di oggi rischiano di fare riesplodere tensioni e violenze scese d’intensità nelle ultime due settimane.

[CO]

Stati Uniti: in Missouri stop a esecuzioni, dubbio che nuovo farmaco possa causare sofferenza

Ansa
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha sospeso temporaneamente l'esecuzione di Herbert Smulls, detenuto nel braccio della morte in Missouri in attesa di stabilire se il nuovo farmaco usato per l'iniezione letale provochi sofferenza. 


L'uomo, 56 anni, è stato condannato a morte per aver ucciso un gioielliere a St. Louis nel 1991. La decisione del tribunale è arrivata circa due ore e mezza prima dell'esecuzione, che era in programma a mezzanotte e un minuto. 

L'avvocato di Smulls ha chiesto di bloccare la mano del boia facendo leva sul fatto che le autorità del Missouri hanno rifiutato di rivelare chi produca il pentobarbital, il farmaco usato per l'iniezione letale. Per questo, secondo il legale, non è possibile stabilire se la sostanza può causare dolore e sofferenza al condannato.

Giordania: HRW denuncia violazioni diritti umani Vittime giornalisti e attivisti. Respinti palestinesi da Siria

ANSAmed
Amman - L'organizzazione Human Rights Watch ha accusato oggi la Giordania di continuare a limitare la liberta' di espressione, incarcerando giornalisti e attivisti, e di impedire l'ingresso sul suo territorio a rifugiati palestinesi che fuggono dalla Siria.


"Le leggi giordane criminalizzano le forme di espressione giudicate offensive verso il Re, le autorita' di governo e le istituzioni, cosi' come verso l'Islam", sottolinea HRW in un comunicato ricevuto dall'ANSA.


La ong accusa le autorita' di Amman anche di impedire l'ingresso nel Paese di profughi provenienti dalla Siria di nazionalita' palestinese e irachena, mentre ha accolto centinaia di migliaia di siriani. Si stima che migliaia di palestinesi siano accampati nella regione di confine di Daraa, in Siria, in attesa di poter passare la frontiera.


L'organizzazione per i diritti umani denuncia infine torture e maltrattamenti inflitti a persone arrestate, affermando che i responsabili di questi atti tra la polizia e le forze di sicurezza "continuano a godere di un'impunita' quasi totale".

Arizona death-row inmate Gregory Dickens found dead in apparent suicide

Death Penalty News
An Arizona death-row inmate died Monday in an apparent suicide, state Department of Corrections officials said.

Gregory Dickens, 48, was pronounced dead after lifesaving measures failed, according to a news release.

Dickens was sentenced to death for his part in a double murder near Yuma in 1991. But, last week, the 9th U.S. Circuit Court of Appeals ruled that, under a recent U.S. Supreme Court ruling, he was entitled to a new hearing in U.S. District Court to determine whether his first appeals attorney had been ineffective.

He was also the lead plaintiff in a 2009 federal lawsuit that challenged the state’s methods of carrying out executions by lethal injection.

mercoledì 29 gennaio 2014

Immigrati, nuovi schiavi dei Paesi del Golfo: appello di Human rights watch

NanoPress
I lavoratori immigrati sono i nuovi schiavi su cui negli ultimi 30 anni è stata costruita la ricchezza dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati arabi uniti, Kuwait, Oman e Qatar). Grazie alla manodopera sottopagata e grazie all'assenza di diritti, i datori di lavoro possono reclutare gente nuova e giovane sottopagandola e sfruttandola. La necessità di cambiamento parte dalla Kafala, una sorta di reclutamento.

LA KAFALA E LA SCHIAVITU'
I nuovi schiavi sono legati al proprio datore di lavoro dalla Kafala (garanzia), un sistema di reclutamento che sembra in tutto e per tutto l'acquisizione di uno schiavo: un ufficio di collocamento nel paese d'origine trova un datore di lavoro disposto a sponsorizzare il lavoratore immigrato, che da quel momento non può cambiare posto di lavoro per tutta la durata del contratto.

DONNE SENZA DIRITTI
Secondo Human Rights Watch, la maggior parte delle donne lavoratrici è impiegata presso le famiglie locali: con un generico "collaboratrice domestica" si intende colei che dovrà cucinare, pulire la casa e spesso crescere i figli della famiglia presso cui lavora, ricevendo in cambio vitto, alloggio e uno stipendio sufficiente per mantenere una famiglia nel paese d'origine. In realtà le donne subiscono il sequestro del passaporto all'arrivo, l'impossibilità di cambiare lavoro senza il consenso del datore di lavoro, orari impossibili e nessun riposo settimanale. Il tutto per paghe da fame, spesso trattenute dal padrone a tempo indeterminato, nelle nazioni che vantano alcuni tra i Pil più alti del mondo.

VIOLENZE E SUICIDI
Numerose sono le violenze ai danni delle domestiche: picchiate dalla padrona, violentate dal padrone, costrette a dormire nei sottoscala, nei garage o nelle cantine. Costrette a subire ogni tipo di violenza, dalle percosse alle bruciature di sigaretta, dall'olio bollente versato sul corpo alle amputazioni. Spesso le vittime di violenze impazziscono fino a togliersi la vita. Il suicidio di una donna nepalese, vittima di abusi sessuali in Kuwait, ha provocato il divieto, da parte delle autorità di Kathmandu, di emigrazione nei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo per tutte le sue cittadine dal 1998 al 2010. Le domestiche immigrate che osano ribellarsi incappano in un destino che può andare dallo stupro, al carcere e persino alla decapitazione.

RISCRIVERE LA KAFALA
Durante la giornata internazionale dei migranti, lo scorso 18 dicembre, Human rights watch ha chiesto all'Associazione per la cooperazione regionale del sud-est asiatico (Saarc) di fare pressione sui propri governi per costringere i paesi del Ccg a rispettare i diritti e la dignità dei lavoratori migranti: dalla discriminazione all'impossibilità di formare un sindacato di categoria, dagli orari di lavoro agli abusi subiti. Tutto deve essere riscritto, a cominciare dalla Kafala che, si legge nel comunicato di Human Rights Watch, "deve essere riformata per permettere ai lavoratori di cambiare impiego o rientrare nei propri paesi anche senza il permesso del datore di lavoro". "I paesi del Golfo - ha dichiarato Brad Adams, responsabile dell'organizzazione per l'Asia - dovrebbe riconoscere il ruolo cruciale dei lavoratori migranti nelle loro economie e adottare delle misure perché i loro diritti vengano pienamente garantiti".

Stati Uniti: Obama torna a chiedere chiusura di Guantánamo e trasferimento detenuti

Adnkronos
Con la fine della missione in Afghanistan è tempo che Guantánamo chiuda. A chiederlo a Capitol Hill, per la prima volta in un discorso sullo Stato dell'Unione, è il Presidente americano Barack Obama: "questo deve essere l'anno in cui il Congresso rimuove le restrizioni al trasferimento dei detenuti e chiudiamo la prigione di Guantánamo". 

"Non combattiamo il terrore solo con l'intelligence e le azioni militari - ha continuato - ma anche restando fedeli ai principi della nostra Costituzione e diventando un esempio per il resto del mondo".

Sud Sudan - Più di 1.000 rifugiati al giorno fuggono dagli scontri

Confini On-Line
Medici Senza Frontiere fornisce aiuti medici e umanitari. Ogni giorno, più di 1.000 rifugiati sud-sudanesi fuggono dagli scontri che avvengono nel loro paese d’origine, attraversando il Kenya, l’Etiopia e l’Uganda, dove le équipe di emergenza di Medici Senza Frontiere (MSF) stanno fornendo aiuti medici e umanitari.


In un solo mese, più di 89.000 persone, soprattutto donne e bambini, sono state costrette a lasciare le loro case, spesso per compiere lunghi viaggi a piedi, in autobus o camion, portando con sé il minimo indispensabile. Alcune famiglie arrivano al confine senza niente; hanno bisogno di cibo, acqua, un rifugio e cure mediche.

“Molti dei rifugiati in Uganda fuggono dalle violenze in Bor, e camminano quattro o cinque giorni per raggiungere Juba, dove prendono un bus o un camion per raggiungere il confine”, racconta Ruben Pottier, Capo Missione di MSF in Uganda, che ospita adesso 46.000 rifugiati sud-sudanesi. “Colpisce molto, quando si cammina nel campo, che ci siano pochissimo uomini”.

Più di 25.000 rifugiati sono ammassati nell’insediamento di Dzaipi, un campo costruito per 3.000 persone. Fa caldo, c’è molta polvere, e le condizioni di vita sono terribili per chi si accampa sotto gli alberi o nelle scuole. “Stiamo curando gravi casi di malaria, dissenteria, e infezioni del tratto respiratorio”, dichiara un medico di MSF, Fredericke Dumont. “Ci sono donne che soffrono di complicazioni durante la gravidanza e alcuni casi di malnutrizione.”

20.000 persone da Dziapi verranno indirizzate nel campo permanente di Numanzi, e c’è in progetto la costruzione di altri tre campi nei prossimi giorni. MSF sta attualmente installando servizi igienico-sanitari e fornendo acqua, gestendo servizi per pazienti ricoverati e visite ambulatoriali, fornendo assistenza materna, vaccini e supporto alla nutrizione per i rifugiati in Uganda. Nuovi campi verranno costruiti e MSF espanderà le sue attività.

“Dato il grande numero di persone che vive in una regione frequentemente colpita da epidemie di colera e meningite, controlleremo da vicino la situazione di salute del campo” dichiara Pottier.

Circa 10.000 rifugiati sud-sudanesi sono fuggiti in Kenya, dove MSF sta lavorando al confine di Nadapal. Alcuni arrivano stanchi, affamati e disidratati; altri hanno venduto i pochi averi personali che portavano con sé per pagare i trasporti.

Tok Maker Tot, 20 anni, è scappato da Juba con sua madre e dieci fratelli dopo aver assistito alla sparatoria contro alcuni studenti universitari. Suo padre è rimasto in città. “Hanno sparato a due studenti della nostra classe” dichiara Tot. “Tutti gli altri studenti sono fuggiti.

Quelli che hanno i soldi sono andati a Nairobi, altri a Kampala, altri in Etiopia. Ma noi, che non abbiamo niente, stiamo cercando di andare a Kakuma (un campo rifugiati nel nordovest del Kenya).”

“Quando le persone attraversano il confine provano sollievo e spesso speranza”, dichiara Guilhem Molinie, Capo Missione di MSF in Kenya. “Ma puoi vedere che le persone sono abituate a tenere duro. Al confine ho incontrato un rifugiato che implorava un ufficiale di poter tornare in Sud Sudan. Voleva cercare sua madre, che era cieca. Ho incontrato un’altra famiglia: erano così spaventati prima di lasciare casa che sono rimasti nascosti sotto il letto per sette giorni.”

Per quanto riguarda il morbillo, MSF sta lavorando con il Ministro della Salute keniota per controllare tutti i rifugiati che arrivano a Nadapal. Finora, l’équipe ha visitato 6.000 persone, e vaccinato più di 1.000 bambini contro il morbillo e la polio. Sette sospetti casi di morbillo sono stati trasferiti all’ospedale locale per le cure. “Con i casi di morbillo riportati nei campi di Juba, dove la maggior parte dei rifugiati si ferma, è necessario fare tutto il possibile per prevenire un’epidemia in Kenya” dichiara Molinie.

Oltre a fornire cure mediche, MSF ha distribuito più di 11.000 litri di acqua ai rifugiati a Nadapal.

Nella vicina Etiopia, nelle prossime settimane, MSF fornirà servizi ambulatoriali, cure materne, immunizzazione, e cure per la malnutrizione a 5.500 rifugiati che sono attualmente a Tirgol, e continueranno a fornire questi servizi una volta spostati al campo permanente a Leichure, che è attualmente in costruzione.

Colombia, rogo in carcere: 10 vittime - Detenuti incendiano letti per protesta

TGCOM24
Almeno 10 persone sono morte e altre 38 sono rimaste ferite in un incendio divampato nel carcere La Modelo di Barranquilla (nord della Colombia), dove i reclusi avevano dato fuoco ai loro materassi in seguito a una rissa. 

Interno del carcere "La Modelo di Barranquilla"
Secondo il direttore del carcere, tutto è cominciato con uno scontro fra circa 12 reclusi in uno dei cortili. Quando gli agenti sono intervenuti per calmare la situazione, i prigionieri hanno reagito.

Graph of major refugee-hosting countries mid-2013 no European country





martedì 28 gennaio 2014

Corea del Nord: l'attivista fuggito dal Gulag... trattati peggio di animali

Ansa
Dolore e rabbia filtrano dalla sua voce per l'incapacità di istituzioni, come l'Onu e il suo Human Rights Council, di risolvere il drammatico stato dei diritti umani in Corea del Nord. "Mi chiedete se eravamo trattati come animali? Io dico peggio perché almeno i topi possono girare liberi e decidere cosa mangiare. Ci era vietato tutto, eravamo sottoposti a ogni tortura e la morte poteva essere un sollievo".
Shin Dong-Hyuk ha 31 anni e nel 2005 riuscì a fuggire dal Camp 14, uno dei famigerati gulag per detenuti politici, ed è forse l'unico nato dentro un gulag che ufficialmente sia riuscito nell'impresa. "La gente, le prime volte che mi capiva di raccontare, aveva difficoltà a capire le atrocità cui eravamo sottoposti", dice in un incontro al club della stampa estera di Tokyo, nell'ambito di una visita in Giappone per incontrare altri attivisti, tra cui le famiglie di cittadini giapponesi rapiti da agenti del Nord, così come gruppi per i diritti umani. "Sono nato in un campo di prigionieri politici e il mio mondo era fatto di guardie e prigionieri.

L'ultima cosa che ho visto prima di scappare non era diversa da quanto visto in una vita intera", racconta Shin, figlio di una coppia detenuta, autorizzata a sposarsi come ricompensa per la buona condotta mostrata. "Non so se mio padre o mio cugino siano ancora lì e vivi. Scappare dalla fame e dalle vessazioni voleva dire superare la recinzione elettrica e tentare la fuga. Sapevo che le guardie avevano l'ordine di sparare, ma l'idea di provare un pasto diverso e migliore non avrebbe reso la fuga inutile, anche se ucciso".

Nel suo racconto, Shin, autore di un libro sull'esperienza atroce vissuta ("Escape from Camp 14") e impegnato a promuovere un documentario sulla vita da prigioniero politico, descrive le vessazioni, le torture subite (le sue braccia sono terribilmente storte, ma ci sono altri evidenti segni di quanto subito) e dice di aver assistito all'uccisione di sua madre e suo fratello. Il 17 marzo sarà a Ginevra per lo Human Rights Council: anche se è molto tardi e se molte opportunità sono sfumate, "credo che la commissione e i Paesi coinvolti dovrebbero prendere posizioni forti. Non so quali, ma l'Onu è una grande organizzazione e dovrebbe fare qualcosa per risolvere questo problema". Shin teme che la situazione in Corea del Nord sia peggiorata sotto il regime di Kim Jong-un.

"Dalle foto satellitari capisco che i campi di prigionia sono più grandi e ci sono più alloggi da quando è al potere", afferma. E sulla caduta dell'ex numero due e zio del leader, Jang Song-thaek, insieme a tutta la sua famiglia e ai suoi uomini, non è affatto sorpreso. "Secondo le regole della Corea del Nord, se non piaci al dittatore, la tua famiglia e i tuoi amici finiscono nei campi. Con questo sistema, solo una persona ha il potere. Quindi, non sono affatto sorpreso che Kim abbia fatto questo a suo zio".

Shin esprime l'auspicio di un cambiamento, pur se pessimista. "Kim usa la paura per avere il controllo, uno strumento molto efficace. Alcuni ipotizzano che le due Coree potrebbero riunirsi in cinque anni: gli esperti lo hanno detto alla morte del nonno, Kim Il-sung, ma anche allora nulla è successo".

Sudan, blogger e attivista del Darfur rischia la tortura. Liberiamolo!

Amnesty International - Corriere della Sera

Tajeldin Ahmed Arja, uno studente di 26 anni, è stato arrestato lo scorso 24 dicembre mentre stava prendendo parte a una conferenza organizzata nella capitale sudanese, Khartoum, sulla situazione dei diritti umani nella regione del Darfur, devastata da un conflitto iniziato nel 2003.

Tajeldin è stato costretto a lasciare il Darfur, con tutta la sua famiglia, alle prime violenze. Ha iniziato a pubblicare un blog sulle violazioni dei diritti umani nella sua terra d’origine.

All’inizio della conferenza, Tajeldin ha preso la parola per dare un messaggio semplice e chiaro: i crimini commessi negli ultimi 10 anni in Darfur chiamano in causa il presidente del Sudan, Omar al Bashir, e quello del Ciad, Idriss Déby. I due sono buoni amici e ottimi alleati. Nel 2010 il presidente ciadiano ospitò il suo collega, sul quale pende un mandato d’arresto da parte della Corte penale internazionale.

Ha avuto un grande coraggio, Tajeldin: al Bashir e Déby erano presenti alla conferenza. Nel giro di pochi secondi, otto agenti della guardia presidenziale sudanese lo hanno trascinato fuori dall’aula e arrestato.

Da un mese, Tajeldin è detenuto in isolamento in una prigione alla periferia di Khartoum. Non può incontrare avvocati né familiari e rischia la tortura.

Non sarebbe il primo caso. In Sudan la tortura è frequente e ne fanno le spese manifestanti, attivisti, difensori dei diritti umani e oppositori politici: i detenuti vengono presi a calci, pugni e bastonate, colpiti con tubi di gomma, obbligati a stare in piedi per giorni sotto un caldo torrido o ad assumere posizioni scomode e dolorose, privati di cibo, acqua e sonno.

Amnesty International ha lanciato un appello per la scarcerazione di Tajeldin, che invito le lettrici e i lettori di questo blog a firmare.

lunedì 27 gennaio 2014

Pakistan - Sentences Mentally Man to Death for Blasphemy

Amnesty International
Washington, D.C. - Pakistan must immediately and unconditionally release a man sentenced to death under the country's blasphemy laws today, Amnesty International said.
Mohammad Asghar, a U.K. citizen with mental illness living in Pakistan, was first arrested in 2010 after allegedly sending letters to various officials claiming he was a prophet.

"Mohammad Asghar is now facing the gallows simply for writing a series of letters," said Polly Truscott, Amnesty International's deputy Asia Pacific director. "He does not deserve punishment. No one should be charged on the basis of this sort of conduct."

Pakistan's blasphemy laws are used indiscriminately against both Muslims and non-Muslims, and violate the basic human rights of freedom of religion and thought.

"The blasphemy laws undermine the rule of law, and people facing charges risk death and other harm in detention," said Truscott. "Pakistan must immediately release Mohammed Ashgar and reform its blasphemy laws to ensure that this will not happen again."

In November 2012, another British citizen, Masud Ahmad, of the Ahmadi sect, was imprisoned for reciting a passage from the Qu'ran, a prohibited act for Ahmadis under the country's blasphemy laws.

Masud has been denied bail and his health is deteriorating as he languishes in jail awaiting an appeal of his sentence which has yet to be concluded.

The Ahmaddiya community are legally barred from calling themselves Muslim, and professing, practicing and propagating their faith as Muslims.

"The Pakistani authorities must immediately and unconditionally release both Mohammad Asghar and Masud Ahmad and guarantee their safety and that of their families," said Truscott. "Several individuals have been attacked, some even killed following charges of blasphemy."

The blasphemy laws have fostered a climate of religiously-motivated violence and persecution, which leads to persecution of religious minorities and Muslims alike. They are often used to make unfounded malicious accusations to settle personal scores in land and business disputes.

"At a time when Pakistan is reeling from a spate of abuses which perpetrators seek to justify as a defence of religious sentiments, reform of the blasphemy laws is more urgent than ever," said Truscott.

Amnesty International is a Nobel Peace Prize-winning grassroots activist organization with more than 3 million members in more than 150 countries campaigning for human rights worldwide. The organization investigates and exposes abuses, educates and mobilizes the public, and works to protect people wherever justice, freedom, truth and dignity are denied.

Maldives: Halt “retrograde” move to resume executions - The first time in 60 years,

Amnesty International
While Maldives legally retains the death penalty the country, it has not carried out an execution since 1954

While Maldives legally retains the death penalty the country, it has not carried out an execution since 1954.

Maldives must immediately put a stop to any plans to resume executions for the first time in 60 years, said Amnesty International.

Home Minister Umar Naseer yesterday ordered the country’s prisons to start making “all necessary arrangements” for the implementation of all death sentences through lethal injection.

“Any move towards resuming executions in Maldives would be a retrograde step and a serious setback for human rights in the country,” said Abbas Faiz, Amnesty International’s Maldives Researcher.

“There is no such thing as a ‘humane’ way to put someone to death, and no evidence that the threat of execution works as a deterrent to crime. Maldives should put an immediate end to such plans now, and instead abolish the death penalty in law once and for all.”

While Maldives legally retains the death penalty, it has not carried out an execution since 1954. There are currently 19 prisoners on death row.

In 2006 Maldives became a State Party to the International Covenant on Civil and Political Rights, a key international treaty which sets the abolition of the death penalty as the goal for states that still retain it. Resuming executions clearly goes against that purpose.

“The government’s order is surprising and extremely disappointing. The death penalty violates the right to life, regardless of the circumstances of the crime or the execution method used”, said Abbas Faiz.

Even though the Home Minister has assured that the government will not seek to expedite judicial processes in death penalty cases, the mere fact that regulatory steps are taken to execute people might encourage a greater preference for use of death penalty rather than imprisonment. Even more worrying is that the Home Minister’s orde condones people being sentenced to death and executed for crimes committed when they were below 18 years of age. The imposition of the death penalty against juvenile offenders violates international law and Maldives’ own international obligations.
Opposing the death penalty does not mean advocating impunity for crime. Instead of resorting to the death penalty, the government should devise effective measures that would prevent and tackle crime while respecting human rights.  The public interest would be best served by, for instance, strengthening the judicial system, so that offenders are brought to justice without their own human rights being violated.

Siria: delegazione Damasco a Ginevra accetta liberazione di 5.500 detenuti

Nova
La delegazione del regime siriano presente a Ginevra ha accettato di liberare 5.500 detenuti per avviare uno scambio di prigionieri con i ribelli. 

È quanto riferisce l'emittente televisiva "al Arabiya". Sono iniziate infatti oggi le consultazioni tra i rappresentanti di Damasco e i ribelli, alla presenza dell'inviato dell'Onu, Lakhdar Brahimi e del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Secondo l'inviato dell'emittente libanese "al Maiadin", il ministro degli Esteri siriano, Walid al Muallim, avrebbe detto a Ki-moon che "il ritiro dell'invito all'Iran alla conferenza di Ginevra 2 rappresenta un'onta per la tua persona". 

Intanto Brahimi sta cercando con le consultazioni di oggi di stabilire prima un clima di fiducia tra le parti per poi proseguire con le trattative: sinora, infatti, i colloqui si sono svolti in sessioni separate.

domenica 26 gennaio 2014

Birmania: 40 Rohingya uccisi, denuncia gruppo diritti umani

swissinfo.ch
Almeno 40 musulmani di etnia Rohingya sarebbero stati uccisi la scorsa settimana nello stato Rakhine, nell'ovest della Birmania, in rappresaglie da parte delle forze di sicurezza e di residenti buddisti in seguito all'uccisione di un sergente di polizia attribuito ai Rohingya.
Lo ha denunciato oggi l'organizzazione per i diritti umani "Fortify Rights", denunciando l'omertà delle autorità birmane e le severe restrizioni all'accesso nella zona applicate a giornalisti e operatori umanitari.

Secondo l'organizzazione, le atrocità descritte nel villaggio di Du Char Yar Than - nel distretto di Maungdaw, vicino al confine col Bangladesh - potrebbero aver causato molte più vittime, e centinaia di Rohingya sono ancora sfollati dopo le violenze. La zona rappresenta una delle aree a fortissima maggioranza Rohingya, una minoranza di quasi un milione di persone che la Birmania discrimina sistematicamente, accusandoli di essere immigrati clandestini provenienti dal Bangladesh.

Il governo e le autorità del Rakhine hanno ripetutamente negato qualsiasi episodio di violenza a parte l'uccisione del sergente di polizia, puntando il dito contro le "folle" di Rohingya che avrebbero attaccato la polizia. Nella zona è impedito l'accesso ai giornalisti, e le consuete restrizioni agli operatori umanitari sono state ulteriormente inasprite nell'ultima settimana.

Se confermate, le violenze porterebbero ad almeno 272 le vittime delle diverse ondate di violenza anti-musulmana nel Rakhine dal giugno 2012. Oltre 140 mila Rohingya vivono tuttora in squallidi campi di sfollati; si calcola che nell'ultimo anno e mezzo decine di migliaia di Rohingya abbiano cercano di emigrare a bordo di barconi, e che in centinaia abbiano trovato la morte in naufragi nell'Oceano Indiano.

sda-ats

Diritti Umani 2013, l'anno nero della Turchia

Info Oggi
Istambul – L'Osservatorio Internazionale per i Diritti Umani ha dichiarato, in una relazione presentata in data 21 gennaio, che il governo turco ha dimostrato e continua a dimostrare una crescente intolleranza verso l'opposizione politica, le proteste pubbliche e le critiche dei media. 

Tra le accuse più pesanti, le repressioni delle proteste di massa, la museruola ai media, i processi iniqui e un sistema di giustizia penale decisamente lacunoso. Emma Sinclair-Webb, ricercatrice dell'organizzazione per la Turchia, ha anche messo a confronto il giro di vita delle proteste con gli sforzi di Ankara di raggiungere la pace nella questione curda, affermando che i secondi risulterebbero pressoché inutili, se il governo non garantisce la difesa del diritto di tutti all'associazionismo e alla libertà di parola.

Il rapporto di 667 pagine, presentato a Berlino, esamina la situazione dei diritti umani in oltre 90 paesi. Si va giù duro sulla Turchia, ma si elogiano anche i passi positivi, all'annuncio, nel 2013, di un “pacchetto di democratizzazione” del paese, che prevede l'annullamento del divieto di indossare il velo nei luoghi di pubblico impiego e l'abbassamento della soglia elettorale – ora al 10% - che ha impedito per anni a partiti minori di accedere al Parlamento.

Gli episodi di Gezi però ne fanno naturalmente da padrone, anche per quanto riguarda le pressioni esercitate sui media, che hanno reso la copertura delle notizie parziale o in diversi casi del tutto insufficiente. Ciò ha anche fatto emergere il problema delle testate turche a rendersi indipendenti e a non entrare in conflitto con gli interessi del governo. Nel corso del 2013, decine di operatori dei media, tra cui figure di rilievo, sono stati immediatamente licenziati perché “non in linea” con l'operato del governo. Non da sottovalutare i casi di giornalisti che per le medesime ragioni sono stati arrestati e continuano a stare in carcere, e la volontà di modificare alcune leggi per limitare la libertà di parola.

Il rapporto tocca anche i processi sommari effettuati ai danni di manifestanti, politici e avvocati, che hanno subito una detenzione – troppo – preventiva e lunga.

Senegal - Casamance: donne per la pace a Dakar

MISNATrecento donne arrivate da Ziguinchor, Kolda e Sedhiou si sono date appuntamento oggi a Dakar per spingere il governo a stabilire un calendario dei negoziati per una pace definitiva in Casamance: lo riferisce la stampa senegalese, aggiungendo che l’altro obiettivo è coinvolgere tutte le senegalesi nella risoluzione del conflitto armato in atto dal 1982 nella regione meridionale.

Ci troviamo in un periodo che non è né di pace né di guerra. Tutte insieme dobbiamo chiamare i belligeranti a sedersi attorno ad un tavolo negoziale (…). Le popolazioni vogliono la pace, le parti coinvolte dicono di volere la pace quindi non capiamo perché on è stato fissato ancora nessun calendario” ha detto Seunabou Male Cissé, presidente della commissione per il dialogo della Piattaforma delle donne per la pace in Casamance. Per la Cissé “bisogna sfruttare un periodo favorevole per chiedere alle parti di accelerare il passo e aprire trattative”. La piattaforma è l’organizzatrice della manifestazione odierna, il cui punto culminante è un colloquio nazionale sul coinvolgimento delle donne nella risoluzione del trentennale conflitto tra la ribellione indipendentista del Movimento delle Forze democratiche di Casamance (Mfdc) e le autorità di Dakar.

Sempre oggi è prevista la cerimonia ufficiale di insediamento del Polo di sviluppo economico della Casamance. Il progetto finanziato dallo Stato senegalese (sei milioni di dollari) e dalla Banca mondiale, con una linea di credito di 40 milioni, è teso ad accrescere la produttività del settore agricolo, offrendo un sostegno particolare a giovani e donne nelle tre regioni meridionali di Ziguinchor, Kolda e Sedhiou. Dopo anni di pesanti scontri, nell’ultimo periodo si sono verificati attacchi mirati, imboscate e scaramucce, sempre meno frequenti ma tutt’ora causa di instabilità nella regione dal forte potenziale agricolo e turistico. Una calma relativa che d’altra parte alimenta l’ottimismo delle autorità locali e nazionali, anche se finora non si è tradotta in passi avanti concreti sul piano negoziale.

Di recente monsignor Paul Abel Mamba, vescovo di Ziguinchor, ha insistito sulla necessità di coinvolgere tutti i cittadini senegalesi così come i paesi vicini – Gambia e Guinea Bissau – per trovare “una soluzione politica durevole e definitiva” attraverso la firma di un accordo “rispettoso della sovranità di tutti”, in grado di assicurare “sviluppo solidario tra tutti i popoli della regione”. Nel suo discorso alla nazione per il 2014, il presidente Macky Sall ha invece assicurato che “con il sostegno di tutti i nostri partner rimangono in vigore tutte quelle misure di reinserimento per quanti accettano di deporre le armi”. Eletto quasi due anni fa, il capo dello Stato si è impegnato a risolvere il conflitto in Casamance.

[VV]

India - Nuovo stupro ordinato da notabili del villaggio

MISNA
Un stupro di gruppo ordinato come punizione da un consiglio di notabili locali. Una notizia che nell’immensa India dove la violenza contro le donne è un fenomeno sempre più diffuso, oppure solo meno nascosto, ha provocato una reazione forte e la richiesta di un intervento deciso.
La protesta in India contro la violenza sulle donne 
La Commissione per le donne del Bengala occidentale, che ha compito di consulenza governativa in questo stato dell’Est del paese, ha ordinato un’inchiesta per fare luce sull’episodio e individuare i colpevoli. Agendo in modo autonomo secondo i poteri di cui dispone, la commissione ha chiesto la pena più severa possibile. La reazione è proporzionata al crimine, non nuovo per la verità nelle aree rurali del paese, ma in questo caso uscito immediatamente allo scoperto per la denuncia della vittima.
Una 24enne indù di origini tribali, di cui si era sparsa la voce di una relazione con un uomo di una diversa comunità è stata condannata dal consiglio degli anziani (panchayat) del suo villaggio di Subalpur, nel distretto di Birbhumi a un’ammenda di 2000 rupie (circa euro). Data l’impossibilità della famiglia di pagare, secondo le testimonianze il capo-villaggio avrebbe ordinato la violenza.
Dopo avere sporto denuncia preso il posto di polizia più vicino, quello di Labhpur, la donna è stata trasportata nell’ospedale distrettuale di Suri, dove è ricoverata in gravi condizioni.
La polizia, agendo con insolita rapidità, ha accolto la denuncia e in base alla testimonianza ha fermato tutti i 13 presunti responsabili, inviati in detenzione cautelare per due settimane. da un tribunale locale
Il distretto di Birbhum, che si trova a circa 150 chilometri dalla capitale dello stato, Kolkata (Calcutta) non è nuovo a faide e violenze che hanno trovato spazio nei mass media. Il precedente più noto è quello di circa quattro anni fa, quando una giovane tribale venne costretta a sfilare nuda per una sua presunta relazione con un uomo giudicato non socialmente compatibile. Il fatto aveva provocato una forte reazione e in un certo senso aveva anticipato l’attenzione dei mezzi di comunicazione presente oggi in India a partire dalla violenza che il 16 dicembre 2012 ha colpito un’infermiera 23enne su un autobus pubblico della capitale. La morte successiva e le circostanze dello stupro hanno acceso un interesse mediatico che ha reso più evidente l’ampiezza e drammaticità di certi fenomeni, possibili anche per l’inattività della polizia, l’omertà delle comunità e la vergogna delle vittime a denunciare gli aggressori.
[CO]

venerdì 24 gennaio 2014

Brasile: le carceri non rieducano e sono in crisi, intervento dell'Arcivescovo di Rio

Agenzia Fides
L'Arcivescovo di Rio de Janeiro, Sua Ecc. Mons. Orani João Tempesta, recentemente nominato Cardinale da Papa Francesco, ha messo in discussione il sistema carcerario brasiliano, evidenziando che le prigioni del paese "non rieducano" i reclusi. 



Secondo la nota pervenuta all'Agenzia Fides, l'Arcivescovo ha incontrato la Presidente del Brasile, Dilma Rousseff, nel palazzo presidenziale, a Brasilia, il 21 gennaio, e in questa circostanza ha manifestato la sua preoccupazione per le carceri del Brasile, che sono in una situazione di crisi tremenda. "Per quanto si possa dire che ci sono nuove carceri, non si riesce ancora ad ottenere che la gente che vi risiede sia ri-educata, che acquisisca un modo corretto di vivere e possa tornare nella società" ha detto l'Arcivescovo.

Le sue parole sono state ampiamente riprese dalla stampa in quanto la situazione delle carceri brasiliane ha attirato l'attenzione delle organizzazioni internazionali dopo le violenze dello scorso anno avvenute nelle prigioni dello stato di Maranhao, dove 62 persone sono morte nel corso del 2013. 

Nel 2014 il centro penitenziale di Pedrinhas, uno dei più violenti del paese, sempre nello stato di Maranhao, ha già registrato tre morti, l'ultimo il 21 gennaio. La realtà di Pedrinhas riflette la situazione del sistema carcerario brasiliano. 

Secondo un recente studio ufficiale, pubblicato dalla stampa locale, le carceri del Brasile possono accogliere 306.497 detenuti, ma alla fine del 2011 i detenuti erano 514.582. Il ministro della giustizia ha annunciato la costruzione di nuovi locali per le carceri, con l'obiettivo di raggiungere 62.000 nuovi posti prima della fine del 2014, anche se questi non copriranno l'attuale deficit di 208.000 posti.

giovedì 23 gennaio 2014

Pesar y frustración en México por la ejecución en Texas de Edgar Tamayo

Agencia EFE
México, - México recibió hoy con pesar y frustración el ajusticiamiento en Texas del reo Edgar Tamayo, decidido en claro desacato a un fallo de derecho internacional y desoyendo las peticiones de clemencia hechas a ambos lados de la frontera.
El preso mexicano, de 46 años, murió por una inyección letal en la cárcel de Huntsville (Texas), después de que fuera condenado a la pena capital en 1994 por el asesinato del policía Guy Gaddis cuando iba detenido en un auto policial.

En una reacción difundida muy poco después de que se confirmara la muerte del reo, el Gobierno mexicano lamentó el ajusticiamiento y recordó que viola un fallo adoptado hace 10 años por la Corte Internacional de Justicia de La Haya.

Ese fallo del llamado Caso Avena ordenó a EE.UU. revisar los veredictos de culpabilidad y la pena capital impuestas a Tamayo y otros 50 mexicanos porque se violó su derecho a ser notificados y recibir asistencia consultar al ser detenidos.

En un comunicado oficial, la cancillería mexicana recordó los pasos adoptados en el caso de Tamayo "hasta agotar todas las instancias a su alcance, tanto internas como internacionales, con el fin de obtener la revisión y consideración del caso por parte de las autoridades judiciales texanas, a la luz de la falta de notificación consular".

"El Gobierno de México hace un llamado para que tomen acciones efectivas y eviten que se ejecuten otras condenas en desacato del fallo Avena que dañen el régimen de asistencia y protección consular acordado entre los países", añadió la nota oficial.

El comunicado también reitera que "la importancia fundamental de este caso es el respeto al derecho de acceso a la protección" que ofrecen los consulados mexicanos en el exterior.

Recuerda que las autoridades mexicanas han brindando "la debida asistencia consultar" a los familiares de Tamayo. "A solicitud de la familia Tamayo, dicha ayuda se mantendrá en el proceso de traslado a México de los restos de Edgar Tamayo", agrega la nota.

A la inmediata reacción del Gobierno se sumaron organizaciones comoAmnistía Internacional, que en una nota consideró que las circunstancias del juicio del reo, como el hecho de que no se tomaron en cuenta elementos aportados por la defensa, como una discapacidad mental leve, "convierten esta ejecución en un asesinato sin ninguna justificación".

"Lo que el mundo atestiguó hoy no fue acto de justicia sino de crueldad. Un hombre hoy fue asesinado bajo la falsa pretensión de justicia, un hombre cuyo proceso no conoció más que la injusticia", afirmó Perseo Quiroz, director ejecutivo de Amnistía Internacional en México.

En México existía la esperanza de que a última hora quedara cancelada la ejecución, confiando en que algunos de los recursos presentados en las últimas horas forzaran al gobernador de Texas, Rick Perry, a aplazar el ajusticiamiento o conmutar la pena.

Mientras se realizaban estos esfuerzos legales y políticos, en el pueblo donde nació Tamayo, Miacatlán, en el estado central de Morelos, vecinos del reo realizaban una cadena de oración siguiendo a distancia los hechos que se desarrollaban en Texas.

Pero ni las plegarias ni las peticiones oficiales de clemencia tuvieron éxito, y Tamayo se convirtió en el tercer mexicano que es ejecutado desde que se conoció el fallo del Caso Avena, desoyendo incluso peticiones hechas desde la Casa Blanca.

Apenas ayer, el Gobierno de Estados Unidos reiteró su petición a las autoridades de Texas para que se aplazara esta ejecución por los efectos que puede tener en los estadounidenses detenidos en el extranjero.

"Estamos pidiendo un retraso en su ejecución hasta que pueda proporcionársele una revisión adecuada y una reconsideración de si la falta de acceso consular influyó en el resultado del proceso", afirmó el martes la portavoz del Departamento de Estado, Marie Harf.

Estados Unidos "quiere poder pedir a otros países las mismas protecciones garantizadas en la Convención de Viena, y no quiere que eso quede minado" por su propia falta de cumplimiento en casos como el de Tamayo, agregó.

Según un experto mexicano, el empeño de Texas de terminar con la vida de Tamayo y de otros reos incluidos en el Caso Avena hace necesarios cambios legislativos en el país vecino para que el presidente conmute una pena capital cuando los gobernadores se nieguen a dar ese paso.

"Creo que el derecho a otorgar el perdón, la conmutación, debe ser en primera instancia del gobernador, pero en una instancia superior, del presidente", dijo a Efe Luis de la Barreda Solórzano, coordinador del Programa de Derechos Humanos de la Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM).

De la Barreda recordó que EE.UU. "es un solo país" y debe acatar los fallos internacionales.
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UNHCR: Sostenere e proteggere i bambini siriani per uscire dalla miseria, isolamento e traumi

UNHCR
Oggi L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), Il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF), Save the Children, World Vision ed altre organizzazioni partner hanno chiesto ai governi, alle agenzie umanitarie e ad altre istituzioni di “diventare campioni” dei bambini siriani e sostenere la strategia denominata “No Lost Generation” per proteggere una generazione di bambini siriani da una vita di disperazione, dalla mancanza di opportunità e da un futuro spezzato.
Attraverso questa strategia, il cui costo stimato ammonta a un miliardo di dollari, le organizzazioni promotrici della campagna stanno concentrando il sostegno pubblico e privato su istruzione di base e programmi di protezione per far uscire i bambini siriani dalla miseria, dall’isolamento e dai traumi. La strategia è stata resa pubblica la settimana scorsa in Kuwait, in occasione di un’importante conferenza di donatori sul sostegno umanitario per la Siria.

È inoltre in fase di lancio, con l'hashtag #childrenofsyria, una grande campagna di coinvolgimento dell’opinione pubblica, che comprenderà l’utilizzo dei social media per reclutare sostenitori influenti e donatori pubblici.

"Il futuro di questi bambini sta scomparendo, ma c'è ancora una possibilità di salvarli", ha dichiarato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati António Guterres. "Il mondo deve rispondere a questa crisi con un sostegno massiccio, immediato ed internazionale".

“Per quasi tre anni i bambini siriani sono stati i più vulnerabili tra tutte le vittime del conflitto”, affermano le quattro organizzazioni promotrici della campagna, “hanno visto le loro famiglie ed i loro cari uccisi, le loro scuole distrutte e le loro speranze cancellate. Sono stati feriti fisicamente, psicologicamente e in entrambi i modi. Sono anche diventati vulnerabili alle peggiori forme di sfruttamento, tra cui lavoro minorile, reclutamento in gruppi e forze armate, matrimoni precoci e altre forme di violenza di genere.”

Oltre un milione di rifugiati siriani sono bambini, più di 425.000 di loro hanno meno di cinque anni. La grande maggioranza di questi rifugiati sono fuggiti in Libano, Giordania, Turchia, Egitto e Iraq e, tra loro, quasi 8.000 bambini sono stati identificati come separati dalle proprie famiglie. La situazione per gli oltre tre milioni di bambini sfollati in Siria è ancora più terribile.

L’UNHCR, l’UNICEF, Save the Children, World Vision ed altri partner nella regione destineranno il miliardo di dollari in programmi che, in collaborazione con i governi e le comunità locali, garantiranno un’istruzione sicura, la protezione dallo sfruttamento, dagli abusi e dalle violenze, cure e sostegno psicologico e offriranno maggiori opportunità di coesione sociale e stabilità in una regione già instabile di per sé.

Questi programmi includono il rafforzamento dei sistemi di protezione dei minori a livello nazionale e comunitario, che risponderanno così ai bisogni dei ragazzi, delle ragazze e delle famiglie ad alto rischio di abusi, abbandono, sfruttamento e violenza, proteggendo allo stesso tempo tutti i bambini da tali rischi.

L'iniziativa aumenterà inoltre l'accesso a un'istruzione di qualità, attraverso approcci formali e non, introducendo percorsi di istruzione accelerati per i bambini che hanno perso la scuola, formazione professionale, formazione degli insegnanti e programmi di incentivazione, e creando un ambiente sicuro per ridurre ulteriormente l'esposizione dei bambini ad altri rischi.

In Siria, l’accesso sicuro all'istruzione per i bambini in età scolare e gli adolescenti sfollati è assolutamente essenziale. L'iniziativa “No Lost Generation” fornirà corsi di recupero e sostegno psicosociale organizzati in gruppi per i bambini in età pre-scolare e per tutti gli altri che non hanno avuto accesso all’istruzione.

"Senza questi investimenti urgenti, milioni di bambini siriani potrebbero non riprendersi mai più da da tante perdite e paura", ha affermato Guterres. "C’è in gioco il loro futuro, e il futuro della loro nazione."

Per l’occasione è stata creata una pagina web www.championthechildrenofsyria.org, che racconta le storie dei bambini colpiti dal conflitto e mostra come investire nei bambini possa avere importanti vantaggi, non solo per le attuali vittime della guerra, ma anche per il futuro a lungo termine della Siria e della regione circostante.

#NoLostGeneration #childrenofsyria

UNHCR, immigrazione, Grecia: primo incidente del 2014 nel Mediterraneo, morti mamma e bambino, 10 i dispersi

UNHCR
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) è costernato per il naufragio di un’imbarcazione a largo delle coste greche nelle prime ore di ieri, che è costato la vita ad una donna e a un bambino. Sono ancora 10 le persone scomparse, tra loro bambini e ragazzi.

In base alle informazioni ricevute da alcuni dei 16 sopravvissuti e dalla Guardia Costiera Greca, l’imbarcazione aveva a bordo 26 afghani e 2 siriani ed è stata intercettata nel Mar Egeo del sud poco dopo mezzanotte a seguito di un guasto meccanico, apparentemente diretta dalla Turchia alla Grecia. La barca, con tutte le 28 persone ancora a bordo, si è capovolta mentre veniva scortata da un vessillo della Guardia Costiera. I sopravvissuti, che ora si trovano nell’isola di Leros, hanno riferito all’UNHCR che al momento del naufragio, l’imbarcazione era scortata verso la Turchia.

"L'UNHCR esorta le autorità a indagare su questo incidente e sul motivo per cui queste vite siano state perse su un’imbarcazione che già era a rimorchio", ha dichiarato Laurens Jolles, Delegato UNHCR per il Sud Europa. "Inoltre i sopravvissuti devono essere rapidamente trasferiti in altre località, così da poter rispondere in maniera più adeguata alle loro necessità."

Quello di martedì è il primo incidente di questo genere nel 2014, e l’ultimo di una lunga serie di tragedie nel Mediterraneo, che coinvolgono persone in fuga via mare verso l’Europa. Il 3 ottobre 2013, in Italia, più di 360 persone sono morte in un naufragio a largo dell’isola di Lampedusa. A questo sono seguiti diversi altri incidenti mortali nelle settimane successive.

Le traversate irregolari del mar Mediterraneo generalmente coinvolgono flussi migratori misti di migranti e richiedenti asilo, tuttavia, a causa dei conflitti in Siria e nel Corno d’Africa è stato registrato un aumento delle morti di persone in fuga da guerre e dalle persecuzioni.

Nel 2013, circa 40.000 persone sono arrivate irregolarmente in Italia, Malta e Grecia via mare. Nel 2011, durante la crisi in Libia, gli arrivi erano stati più di 60.000. Le traversate irregolari del Mediterraneo si verificano in genere tra marzo e ottobre, nei mesi primaverili ed estivi, ma quest'anno stanno proseguendo anche durante l'inverno, nonostante condizioni meteorologiche estreme. Finora, solo in Italia, sono arrivate via mare oltre 1.700 persone.

L’UNHCR ha esortato l’Unione Europea e ad altri governi a collaborare per ridurre il numero di morti di persone che intraprendenono queste pericolose traversate nel Mediterraneo e nelle altre principali frontiere marine del mondo, continuando a rafforzare le operazioni di ricerca e soccorso ma anche attraverso la creazione di canali di migrazione legale alternativi a questi pericolosi movimenti irregolari.

mercoledì 22 gennaio 2014

Immigrazione: la clandestinità non è più reato... anzi sì

Il Manifesto
Il reato di clandestinità viene abrogato, ma non del tutto e non definitivamente. 

Alla fine, dopo tante promesse e altrettante minacce, la soluzione capace come al solito di mettere d'accordo tutti è saltata fuori alle undici di lunedì sera, dopo che per tutto il giorno il Pd aveva promesso che non avrebbe mai ceduto alle pressioni di Alfano per mantenere il reato simbolo della Bossi-Fini. L'accordo messo alla porta fino a poche ore prima, è quindi rientrato dalla finestra consentendo così alla maggioranza di non inciampare, almeno per ora, sulla revisione di una delle peggiori leggi sull'immigrazione.
La soluzione - resa possibile grazie a un emendamento del governo al ddl sulle pene alternative al carcere in discussione al Senato - prevede che il reato di clandestinità venga abrogato e torni a essere un illecito amministrativo punito con un'ammenda e l'espulsione. Sanzioni valide però solo per la prima volta in cui un immigrato irregolare viene fermato. Torna infatti ad essere considerato un reato penale - anche se non punibile con il carcere - nei casi di recidiva, vale a dire se l'immigrato non lascia il Paese oppure non rispetta gli altri provvedimenti ammnistrativi emessi nei suoi confronti come, ad esempio, l'obbligo di presentarsi in questura. L'emendamento è stato approvato con 182 voti a favore (Pd, M5S, Ncd e Sc), 16 contrari e 7 astenuti. "Nessun passo indietro" ha assicurato in aula il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, scegliendo non a caso parole capaci di accontentare tutte le anime della maggioranza.

"Chi per la prima volta entra clandestinamente nel nostro paese non verrà sottoposto a procedimento penale ma verrà espulso. Ma se rientrasse, a quel punto commetterebbe un reato", ha proseguito Ferri. Di fatto si è tornati alla situazione prevista originariamente dalla Bossi-Fini prima che nel 2009, con il pacchetto sicurezza dell'allora ministro degli Interni Maroni, l'immigrazione clandestina diventasse un reato penale, e dopo l'intervento della Corte di giustizia europea, che nel 2010 vietò il carcere per chi veniva trovato senza documenti. Per dirla con le parole del senatore democratico Nicola Latorre quello di ieri è "il miglior compromesso possibile".

Migliore per tutti. Per il Pd e il Ncd che possono presentarsi ai propri elettori vantando di aver mantenuto la promessa fatta (il primo di abrogare il reato di clandestinità, il secondo di mantenerlo). Ma buono anche per la Lega, che ha ricominciato ad agitare lo spauracchio di improbabili invasioni. Peccato che così si sia persa un'occasione per cominciare a mandare in soffitta quella cultura - basata solo su paura e criminalizzazione degli stranieri - che ha caratterizzato le politiche sull'immigrazione degli ultimi venti anni. Lo ricordava ieri il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato e uno dei 16 voti contrari all'emendamento: "Una scelta - ha spiegato - che muove dalla necessità di segnare una forte discontinuità con le politiche del centrodestra, che hanno fatto dell'immigrazione una pura questione penale e di limitazione della libertà".
di Carlo Lania

Stati Uniti: Amnesty critica Obama; promesse mancate su Guantánamo, struttura ancora aperta

Tm News
Il fatto che Guantánamo, cinque anni dopo che il presidente Usa Barack Obama firmò l'ordine esecutivo per chiudere la struttura, continui a restare aperta, è per Amnesty International un evidente esempio dei doppi standard adottati dagli Usa nel campo dei diritti umani. 

"L'ordine esecutivo firmato il 22 gennaio 2009, che disponeva la chiusura di Guantánamo entro un anno, fu una delle prime decisioni assunte dal presidente Obama dopo la sua entrata in carica" - ha ricordato Erika Guevara Rosas di Amnesty International - cinque anni dopo, quella promessa è diventata un fallimento nel campo dei diritti umani che rischia di perseguitare il ricordo del presidente Obama, come già è successo al suo predecessore". 

La denuncia - Amnesty ricorda che a 12 anni di distanza dai primi arrivi restano a Guantánamo oltre 150 detenuti, la maggior parte dei quali senza accusa né processo. Una manciata di detenuti sta affrontando il processo nell'ambito del sistema delle commissioni militari, che secondo l'organizzazione umanitaria non rispetta gli standard internazionali sul giusto processo. Dei quasi 800 detenuti di Guantánamo, meno dell'1% è stato condannato dalle commissioni militari e nella maggior parte dei casi a seguito di un patteggiamento. Gli Usa si aspettano da altri paesi ciò che essi rifiutano di fare: accogliere i detenuti rilasciati che non possono essere rimpatriati.

Alcuni anche se rilasciati continuano a rimanere a Guantánamo - Il trasferimento, nel dicembre 2013, di tre cinesi di etnia uiguri in Slovacchia è avvenuto dopo che erano trascorsi più di cinque anni dalla sentenza che aveva giudicato illegale la loro detenzione. 

Più di 70 detenuti, in maggior parte cittadini dello Yemen, sono stati autorizzati al trasferimento ma l'amministrazione Usa si è appellata alla situazione di sicurezza nel loro paese per ritardare la loro uscita da Guantánamo. 'Anno dopo anno, mentre tenevano aperto Guantánamo, gli Usa hanno continuato a proclamare il loro impegni per gli standard internazionali sui diritti umani. 

Se qualsiasi altro paese fosse stato responsabile del vuoto di diritti umani rappresentato da Guantánamo, avrebbe certamente attirato la condanna degli Usa. Da molto tempo è necessario che gli Usa pongano fine a questi doppi standard' - ha proseguito Guevara Rosas. Le richieste - Amnesty chiede alle autorità Usa di assicurare indagini indipendenti e imparziali su tutte le denunce credibili di violazioni dei diritti umani commesse a Guantánamo e in altri centri di detenzione. Le conclusioni di queste indagini dovrebbero essere rese pubbliche e chiunque venisse giudicato responsabile di crimini di diritto internazionale dovrebbe essere portato di fronte alla giustizia: a prescindere dal suo attuale o passato rango.

Corea del Nord: troppi detenuti muoiono nei gulag, chiesto l'aiuto alle famiglie

Tempi
Il terribile Campo di rieducazione numero 12 ha aperto alle visite dei familiari per i detenuti, che potranno ricevere cibo e vestiti. "La maggior parte dei detenuti è stata mandata nelle miniere e sono morti in troppi". 

Per la prima volta nella storia dei gulag nordcoreani sarà permesso alle famiglie di visitare e rifornire i detenuti di vestiario e cibarie. La notizia sulla nuova politica vigente al Campo di rieducazione numero 12 è stata fornita a Radio Free Asia da un residente della provincia North Hamgyeong, ma la motivazione del cambiamento è tutt'altro che umanitaria. Il gulag situato in Hoeryung City è conosciuto per le violazioni dei diritti umani che avvengono all'interno, tra cui lavori forzati in condizioni di vita disumane, torture, pestaggi ed esecuzioni sommarie pubbliche. Di solito, vengono internati criminali violenti, violatori delle leggi sulla droga e disertori che cercano di scappare dal paese ma vengono scoperti.

Secondo la fonte, solo ai detenuti con pene superiori ai sette anni veniva ordinato di lavorare nelle miniere di rame, dove le possibilità di sopravvivere sono bassissime. "Ma dall'inizio dello scorso anno, la maggior parte dei detenuti è stata mandata nelle miniere e sono morti in così tanti che le autorità non hanno avuto altra scelta che cercare di farli sopravvivere con l'aiuto delle loro famiglie". Ora molti detenuti "riescono a sopravvivere grazie al cibo e all'acqua portato dalle loro famiglie".

Per la prima volta l'Onu sta conducendo un'indagine sulle violazioni dei diritti umani nei gulag della Corea del Nord, dove sono rinchiuse ancora oggi circa 200 mila persone. Il quadro che esce dai primi racconti ascoltati è drammatico: torture sistematiche, morti per mancanza di cibo, esecuzioni sommarie, trattamenti disumani. 

Il giudice Michael Kirby, che conduce l'indagine, non ha rivelato molti dettagli ma tra i casi più terribili che l'hanno mosso fino alle lacrime ci sono quelli di una donna costretta dagli aguzzini comunisti ad annegare il proprio figlio. Il testimone più attendibile della vita nei gulag è Shin Dong-hyuk, nato e cresciuto in un gulag, da cui è riuscito a scappare a 23 anni.

di Leone Grotti

Iraq: missione Onu chiede revisione del codice penale e moratoria su pena di morte

Nova
La Missione delle Nazioni Unite in Iraq (Unami) ha chiesto oggi di modificare la legge sul "terrorismo" in linea con il diritto internazionale e la Costituzione, con attenzione alla necessità di fermare la pena di morte e garantire la piena attuazione della la strategia nazionale per combattere la violenza contro le donne

Una modifica, richiesta al governo centrale di Baghdad e alla regione del Kurdistan, è stata proposta anche per garantire il lavoro dei giornalisti contro pressioni e violenze. "Il governo iracheno modifichi la legge sul terrorismo, compresi il diritto a un processo equo e la riforma dell'amministrazione delle carceri", si legge nella relazione semestrale sulla situazione dei diritti umani in Iraq di Unami.

Cina: detenuto editore di Hong Kong che pubblica i dissidenti

www.ilmondo.it
Un editore di Hong Kong, che si apprestava a pubblicare il libro scritto da un dissidente cinese sul presidente Xi Jinping, è detenuto in Cina da circa tre mesi. 

È quanto riporta martedì il giornale anglofono di Hong Kong, "South China Morning Post", precisando che Yao Wentian, 73 anni, stava per pubblicare "Il padrino cinese Xi Jinping" di Yu Jie, fuggito negli Stati Uniti. 

Secondo il quotidiano, l'editore starebbe stato "attirato" a Shenzhen, la prima città del continente cinese al confine con Hong Kong, dove sarebbe stato circondato da una decina di uomini in abiti civili e condotto in un centro di detenzione. La polizia non ha precisato i capi di accusa a suo carico. "Penso che la ragione principale del suo arresto sia da ricercare nel suo lavoro sul mio libro", ha detto Yu Jie, il cui libro dovrebbe essere pubblicato ad aprile. 

Il dissidente ha già scritto "Il miglior attore della Cina: Wen Jiabao", graffiante critica dell'ex premier cinese.

Indian Supreme Court commutes death penalty of 15 convicts due to delay, mental illness

truthdive.com
ACHR welcomes SC commutation of 15 death sentences
Seat of Indian Supreme Court
The Asian Centre for Human Rights (ACHR) has welcomed the judgment of the Supreme Court commuting the death sentence to life imprisonment for 15 death-row convicts on the grounds of inordinate delay and mental illness.

"This makes India to move an inch towards being an abolitionist State and India must now consider abolition of death penalty once and for all," said Suhas Chakma, Director of Asian Centre for Human Rights.

The judgement will impact 414 death row convicts who remained in various prisons at the end of 2012.

The maximum number of death row convicts at the end of 2012 were in Uttar Pradesh with 106 followed by Karnataka (63); Maharashtra (51); Bihar (42); Delhi (27); Gujarat (19); Punjab (16); Kerala (14); Tamil Nadu (12); while Assam, Jammu and Kashmir and Madhya Pradesh each had 10 death row convicts.
Out of 414 death row convicts, 13 were female. Maharashtra had maximum female death row convicts with 5 followed by Delhi (4); Punjab (2); and 1 each in Haryana and Karnataka

martedì 21 gennaio 2014

Troppi malati in carcere - «Serve un Osservatorio»

Avvenire
Se l’80% della popolazione di una città fosse malata, il sindaco ordinerebbe quanto meno una profilassi collettiva per arginare la trasmissione del virus. Ciò non avviene, invece, nel sistema carcerario italiano che, per dimensioni (64.758 i detenuti presenti al 30 settembre scorso), potrebbe benissimo stare tra i comuni italiani di medie dimensioni. 

In questa cittadina con le sbarre e circondata da alte mura, la concentrazione di malattie ha ormai abbondantemente superato il livello d’allarme, come confermano i dati che la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, ha recentemente consegnato al Parlamento.

«Sono anni che chiediamo al Ministero della Salute di attivare un Osservatorio nazionale sullo stato di salute dei detenuti – osserva Enrico Giuliani, consigliere della Simspe –. Soltanto così avremo la possibilità di effettuare un serio studio epidemiologico sulle patologie più sviluppate in carcere».

Le ultime stime dicono, appunto, che il 60-80% dei ristretti ha almeno una patologia e, per la maggior parte (48%), si tratta di malattie infettive. I tumori rappresentano l’1% circa di tutte le patologie e riguardano soprattutto linfomi, leucemia, neoplasie del polmone e neoplasie epatiche. «In genere – ricorda Giuliani, medico del carcere di Viterbo – questi pazienti sono curati negli ospedali e, dove esistono, vengono ricoverati nei reparti di Medicina protetta, come nel caso del “Belcolle” di Viterbo».

Un terzo dei carcerati (32%), ha problemi di tossicodipendenza, condizione che, stando agli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, riguarda 15.663 persone (di cui 4.864 stranieri). Al terzo posto tra le patologie più comuni tra i carcerati, ci sono i disturbi psichiatrici maggiori, che colpiscono il 27% della popolazione delle celle. Nella “classifica” della Simspe entrano quindi le malattie strettamente legate alla forzata inattività cui è costretto chi sta scontando un pena detentiva. Il 17% soffre di malattie osteorticolari, il 16% presenta patologie cardiovascolari, l’11% ha problemi metabolici e il 10% malattie dermatologiche, la cui trasmissione è favorita dall’alto tasso di sovraffollamento. Lo scorso anno è arrivato al 136%, pari a 17.143 detenuti presenti oltre la capienza massima di 47.615 posti letto offerta dai 206 istituti di pena presenti sul territorio nazionale.

L’affollamento delle celle aumenta il rischio di contagio da infezioni; quelle maggiormente presenti sono la tubercolosi (ne soffre il 22% dei detenuti), il virus Hiv (4%), l’epatite B (5%), l’epatite C (33%) e la sifilide (2,3%).
Migliorare le condizioni di «detenzione per adulti e minori», anche attraverso il «completamento del piano straordinario di edilizia penitenziaria», è quindi in cima alle priorità indicate dal ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, nella direttiva ministeriale per il 2014.

Per affrontare in maniera non estemporanea il problema della cura delle malattie in carcere, la Società dei medici penitenziari ha rivolto una serie di «istanze al legislatore». Tra le più urgenti, dopo l’Osservatorio, c’è l’adeguamento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) alle «specificità penitenziarie». Inoltre, i sanitari chiedono l’istituzione del «fascicolo sanitario elettronico nazionale, elemento sostanziale per creare ed integrare la continuità diagnostico-terapeutica territorio-carcere-territorio». E per evitare i casi come quello, denunciato dall’associazione Antigone, di Federico Perna, morto a Poggioreale (Napoli), l’8 novembre scorso ufficialmente per sospetto ictus. I compagni di cella raccontano però che «da una settimana sputava sangue», forse a causa della grave patologia epatica di cui soffriva da tempo. In carcere dal 2010, in tre anni Federico è stato detenuto a Regina Coeli (Roma), Velletri, Cassino, Viterbo, Napoli-Secondigliano e, infine, Poggioreale, dove è morto. Sul caso sono state aperte due inchieste, una amministrativa e una giudiziaria, ma non occorre attendere gli esiti per dire, con Antigone, che «questo girovagare tra gli Istituti di pena non ha giovato alla salute del detenuto».
Per evitare altri casi come questo, nel suo ultimo Rapporto, Antigone ha sollecitato la politica a creare le condizioni per una «tutela effettiva della salute» dei detenuti, «anche attraverso una figura che sia realmente intesa quale medico di fiducia». Un’opportunità ancora negata alla maggior parte dei carcerati.

Paolo Ferrario