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lunedì 7 ottobre 2013

Libia: 6mila persone nei campi di concentramento; stupri, torture e tanti bimbi soli

Il Manifesto
Ganfuda, Majer, Misurata, Abu Salim, al-Zawiya... L'elenco dei campi di concentramento di migranti in Libia - li chiamano centri di detenzione o strutture d'accoglienza per conferire un'inesistente dignità agli accordi politici stipulati dal 2008 ad oggi tra i governi libici e quelli italiani e di altri paesi europei - si allunga di mese in mese.

Sono solo 17 i luoghi di trattenimento formali, ma l'elenco delle carceri dove senza accuse né processi sono reclusi migliaia di migranti, uomini, donne e bambini provenienti soprattutto dal Corno d'Africa (Somalia, Eritrea e Etiopia) e immessi nella tratta lungo la Libia, sembra infinito. In questi campi gestiti da miliziani - la Croce rossa ne ha visitati solo una sessantina - si stima ci siano fino a 6 mila persone.

Ma è solo un dato indicativo. Ammassati in condizioni subumane, sottoposti a ogni genere di vessazioni, stupri e torture, per la sola colpa di avere la pelle nera in un paese diventato ormai "un enorme supermercato di armi, dove regna la confusione e la legge del più forte", non hanno diritti né voce, cancellati dal mondo come polvere sotto il tappeto.

C'è solo un modo di ascoltare le testimonianze di questi "condannati all'inferno libico": il telefono cellulare che spesso riescono a portare con sé. È in questo modo che la onlus In-Migrazione ha raccolto centinaia di testimonianze in un dossier presentato nei giorni scorsi dal titolo "0021, trappola libica", dal prefisso internazionale digitato migliaia di volte per entrare in contatto con i cellulari libici nascosti nei centri di detenzione. "La situazione è molto drammatica, in carcere ti danno un pane al giorno, solo un pane, poi c'è la tortura...ti picchiano in ogni modo possibile... se provi a scappare, se fai qualsiasi cosa ti picchiamo con il bastone. Le donne vengono stuprate e mandate via", racconta Tesfu (ma i nomi sono di fantasia).

E Salih: "Ci sono donne incinte, bambini, minori. Ce n'è uno anche qui nella nostra stanza, si chiama Mahamed. So che solo tra gli eritrei ce ne sono cinque o sei di 14 o 15 anni. Stanno con noi, vivono con noi. Questi sono da soli, non sono accompagnati, mentre ce ne sono altri piccoli con la famiglia. Ci sono famiglie e i loro figli in una stanza, ci sono bambini di 5/7 anni, ci sono sette bambini eritrei che conosciamo di tre famiglie... e altri 3-4 di altre famiglie".

Nel maggio scorso, testimonia Amnesty International, nel "centro di trattenimento" di Sabha si trovavano 1300 persone: "La prigione è risultata priva di un servizio di fognatura funzionante e i corridoi erano pieni di immondizia. Circa 80 detenuti presumibilmente affetti da scabbia erano sottoposti a "trattamento" in un cortile, sotto al sole, in condizioni di disidratazione".

I delegati di Amnesty hanno documentato "numerosi casi di detenuti, uomini e donne, sottoposti a brutali pestaggi con cavi elettrici e tubi dell'acqua. In almeno due "centri di trattenimento", è stato riferito dell'uso di munizioni letali per sedare le rivolte. Un uomo che era stato raggiunto da un proiettile a un piede è stato legato a un letto e poi colpito col calcio di un fucile: per quattro mesi non ha potuto camminare".

"Razzismo e rastrellamenti hanno subito una recrudescenza nel settembre 2012 dopo l'attacco al consolato Usa di Benghazi e nel febbraio del 2013 in occasione del secondo anno della "rivoluzione"", spiega Simone Andreotti, presidente di In Migrazione Onlus. "Evitare queste morti non è impossibile - spiega Andreotti.

Sarebbe sufficiente permettere a queste persone di ottenere un lasciapassare nelle ambasciate e nei consolati europei nei paesi di transito, per poter fare richiesta d'asilo in Europa. Una scelta che salverebbe tante vite, spezzerebbe gli interessi del traffico di esseri umani e permetterebbe di smarcarsi definitivamente dai ricatti di paesi che trasformano l'apertura o la chiusura delle frontiere in un'arma di pressione internazionale".

di Gilda Maussier

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