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mercoledì 31 luglio 2013

Diritti Umani - Birmania, repressioni senza fine sui dissidenti e le diverse etnie

La Repubblica
Pur avendo iniziato una serie di riforme "democratiche", il paese asiatico continua l'annientamento dei diritti della popolazione e le diverse etnie che compongono il variegato mosaico del Paese
ROMA - Le agenzie di viaggi di casa nostra descrivono la Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta militare centrale nel 1989, come il Paese dalle mille pagode, che ci riporta a culture millenarie non ancora contaminate dalla modernità. Le grandi multinazionali occidentali, invece, vedono nella Birmania, incuneata tra le potenze dell'India e della Cina, una possibile nuova "Tigre asiatica" dove poter fare grandi affari, grazie alle numerose risorse naturali che il Paese offre e grazie alla manodopera, spesso molto giovane, a bassissimo costo. Quello che però di solito non viene detto è che la Birmania, pur avendo iniziato una serie di riforme "democratiche", continua la sua brutale repressione verso la popolazione e le diverse etnie che compongono il variegato mosaico del Paese.

Leggi repressive ancora in vigore. Il presidente birmano, l'ex-generale Thein Sein, per rispettare l'impegno assunto nel recente viaggio diplomatico in Europa, dove ha promesso la liberazione, entro la fine dell'anno, di tutti i prigionieri politici, ha annunciato di aver appena liberato 73 dissidenti. Il problema, però, come sottolinea Thet Oo, un attivista per i diritti umani in Birmania, è che le "leggi repressive che permettono di mettere i prigionieri politici in carcere sono ancora in vigore". Ed è dunque necessario "fermare gli arresti e far cadere le accuse verso coloro che si battono per i diritti dei cittadini". Attualmente, secondo quanto riferito dal governo birmano, il numero dei prigionieri politici rimasti in carcere è di circa un centinaio.

Dieci anni di reclusione per una manifestazione. A conferma di quanto viene detto da Thet Oo, c'è il caso di Aung Soe, membro del People's Support Network che è appena stato condannato a scontare dieci anni di reclusione per "minaccia alla sicurezza nazionale". La colpa di Aung Soe è quella di aver promosso una serie di manifestazioni contro la realizzazione di una discussa miniera di rame sino-birmana - situata nei pressi del monte Letpadaung, in una regione agricola della Birmania settentrionale - che potrebbe avere un impatto devastante sull'ambiente. La costruzione della miniera, attualmente ferma, fa parte di un progetto congiunto tra il Ministero birmano delle Miniere e dell'Industria - molto vicina alla leadership militare - e la Myanmar Wanabo Mining Copper, una componente del gigante statale cinese North China Industries Corp. (Norinco).

Scontri a fuoco contro i Kachin. Nel nord-est della Birmania, al confine con la Cina, si registrano scontri a fuoco contro l'etnia Kachin, rincominciati, nel giugno del 2011, dopo diciassette anni di "cessate il fuoco". Anche qui, molto probabilmente, a dispetto della volontà degli abitanti della regione, si celano interessi economici che la Birmania vuole mantenere con il suo storico partner cinese. I combattimenti, infatti, sono iniziati quando i leader Kachin si sono rifiutati di abbandonare una postazione considerata strategica, vicino a dove deve essere realizzata la diga Myitsone, sul fiume Irrawaddy. Il progetto, promosso in collaborazione tra il governo birmano e quello cinese, è stato sospeso, ma non annullato, alla fine del 2011.

I birmani non fermano i rifornimenti militari. Anche a nord dello Stato Karen, al confine tra Birmania e Thailandia, la guerriglia del Karen National Liberation Army, contraria allo sfruttamento incontrollato dei propri territori a favore di grandi multinazionali, sta opponendo una forte resistenza contro la costruzione della diga Hat Gyi, sul fiume Salween. In queste zone, nonostante l'inizio di un accordo firmato nel gennaio del 2012 tra la Karen National Union, componente politica dei Karen, e il governo birmano, la minaccia che la guerra torni in maniera continuativa è sempre alle porte. "Molte persone sono preoccupate perché i militari birmani avanzano nei territori Karen rafforzando le loro basi militari che sono anche state ricostruite con materiali più moderni e resistenti". A sostenere questa posizione è Saw Greh Moo del Salween Institute for Public Policy, che aggiunge: "Molti Karen sono stati cacciati dalle proprie terre per far spazio alle costruzioni idroelettriche".

Scontri a carattere religioso. Nella Birmania dei processi "democratici" non mancano neanche gli scontri a carattere razziale-religioso. Nell'ovest del Paese, nello Stato Rakhine, al confine con il Bangladesh, le violenze tra la maggioranza buddista - spesso accusata di essere appoggiata dalla polizia - e la minoranza musulmana dei Rohingya, hanno provocato centinaia di morti. Secondo le Nazioni Unite, i Rohingya sono una delle etnie più perseguitate al mondo. Questo gruppo etnico, presente in Birmania in circa 800mila unità, vive nella povertà più assoluta e non è riconosciuto dalle autorità, anche se i suoi componenti emigrarono nel Paese a partire dal VIII secolo.

Il business prima di tutto. Da una parte, è chiaro, il presidente Thein Sein, vuole aprire tutti i contatti possibili con l'Occidente, anche sfruttando l'entrata in Parlamento del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Dall'altra, tutto il mondo, è interessato alle grandi potenzialità economiche della Birmania, ricca - soprattutto nelle zone controllate dalle diverse etnie - di petrolio, gas e legname. Meno interesse, purtroppo, viene dato ai diritti umani, alle richieste dei diversi gruppi etnici e ai numerosi territori incontaminati che vorrebbero rimanere tali.
di FABIO POLESE

Bangladesh, la polizia spara e uccide chi scende in piazza per protestare: 150 uccisi dal febbraio 2013

La Repubblica
Lo scrive in un rapporto di 48 pagine Human Rights Watch (HRW). Le forze di sicurezza hanno usato una forza eccessiva nel rispondere alle manifestazioni, uccidendo almeno 150 manifestanti e ferendone almeno 2.000, dal febbraio 2013 ad oggi. Molti gli arresti illegali, secondo il rapporto di HRW. Chiuse anche due Tv 
NEW YORK - Le forze di sicurezza del Bangladesh - denuncia Human Rights Watch (HRW) in un rapporto di 48 pagine pubblicato oggi - hanno spesso usato una forza eccessiva nel rispondere alle proteste di piazza, uccidendo almeno 150 manifestanti e ferendone almeno 2.000, dal febbraio 2013. Mentre un gran numero di manifestanti sono stati arrestati, le autorità di governo non hanno fatto nessuno sforzo significativo per contenere e poi perseguire i responsabili delle forze di sicurezza.

Blood On The Streets è il titolo del rapporto. L'accusa di un uso eccessivo della forza durante le proteste in Bangladesh, trova fondamento in 95 interviste con le vittime e i loro familiari, testimoni, difensori dei diritti umani, giornalisti e avvocati. Il rapporto documenta, caso dopo caso, come la polizia e i reparti paramilitari Rapid Action Battalion (RAB) hanno aperto il fuoco contro la folla ed hanno picchiato la gente brutalmente. In alcuni casi, le forze di sicurezza hanno anche effettuato esecuzioni extragiudiziali. Human Rights Watch ha anche documentato l'uccisione di almeno una dozzina di membri delle forze di sicurezza e agenti di polizia nel corso delle proteste, oltre a tre membri del governo, del partito Lega Awami.

L'origine degli scontri. "Con le elezioni nazionali - ha detto Brad Adams, direttore per l'Asia di Human Rights Watch - le proteste di piazza tenderanno ad aumentare ed essere più frequenti, tanto da aumentare il rischio di ulteriori violenze. Se il governo non prenderà misure energiche per tenere a freno le forze dell'ordine - ha detto ancora Adams - potrà versarsi ancora più sangue sulle strade entro la dine dell'anno". Le grandi proteste sono iniziate nel febbraio scorso nel paese asiatico, in risposta alle decisioni del Tribunale penale internazionale (TIC) istituito per mettere sotto processo i responsabili di crimini di guerra ed altri abusi, durante la guerra di liberazione del Bangladesh nel 1971.

Le condanne a morte e all'ergastolo. Un gran numero di manifestanti sono scesi in piazza per chiedere la pena di morte, dopo che il giudice ha inflitto una condanna all'ergastolo per un membro anziano del partito Jamaat-e-Islami. I sostenitori della formazione politica hanno indetto scioperi ed hanno organizzato dimostrazioni il 28 febbraio scorso, in seguito alla condanna a morte contro la vice-presidente del partito Jamaat, Delwar Hossain Sayedee. Le forze di sicurezza hanno ucciso decine di persone e centinaia ne hanno ferite, tra manifestanti e passanti, continuando poi a reprimere ogni forma di protesta degli aderenti al partito Jamaat, durante le manifestazioni che si sono svolte tra febbraio ed aprile.

"Sparavano a distanza ravvicinata". Un'altra ondata di sanguinose violenze si sono avute in risposta ad una marcia di protesta che ha avuto luogo il 5 e 6 maggio scorso a Dhaka (capitale del Bangladesh) dal movimento islamico Hefazat-e-Islami. Le forze di sicurezza hanno affrontato decine di migliaia di manifestanti. Mentre in alcuni reparti della polizia sembravano aver rispettato gli standard minimi internazionali nel disperdere i manifestanti, secondo il rapporto di HRW in altri casi l'uso della forza da parte della polizia sarebbe stata illegittima. Sul terreno sarebbero rimasti almeno 50 morti e oltre 2.000 feriti. Human Rights Watch ha parlato con i testimoni, i quali hanno dichiarato di aver visto i manifestanti picchiati dalla polizia i cui agenti sono stati visti anche sparare a distanza ravvicinata con pallettoni e lacrimogeni. "Mirava al mio petto - ha detto uno dei testimoni, un ragazzino di 12 anni - ma sei piccole palline di gomma hanno colpito la mia faccia. L'uomo che ha sparato - ha detto ancora - si trovava a 2 metri di distanza da me. Ho fatto finta di essere morto e così m'ha mollato".

"Ci vuole un'indagine indipendente". Il governo del Bangladesh - si legge nel rapporto - dovrebbe nominare una commissione indipendente per indagare sulla morte di decine di manifestanti, tra cui bambini e perseguire i responsabili di veri e propri omicidi sommari. Lo stesso governo dovrebbe inoltre consentire a relatori speciali delle Nazioni Unite di entrare nel paese per condurre valutazioni indipendenti. Risulta, inotre, che le forze di sicurezza hanno usato accuse penali pretestuose per intimidire i testimoni e i familiari dei manifestanti uccisi dalla polizia. Dopo le proteste, la polizia ha presentato denunce penali contro centinaia, talvolta migliaia, di "ignoti". La polizia sarebbe quindi entrata nelle comunità in cui vivevano i manifestanti, usando poi questi rapporti come giustificazione per arresti arbitrari di decine di individui. In particolare degli uomini ritenuti sostenitori del partito Jamaat. Molte personedi sinistra di queste comunità hanno avuto paura e sono stati indotti a nascondersi.

Il bavaglio ai Media. Human Rights Watch ha anche documentato un restringimento dello spazio per i media. Due televisioni che supportano i partiti politici di opposizione, Tv islamica e Diganta TV, sono state chiuse nella notte tra il 5 e il 6 maggio. Le due stazioni trasmettevano in diretta dai luoghi della protesta. Il governo ha anche chiuso il quotidiano d'opposizione Amar Desh e incarcerato il suo editore, Mahmdur Rahman, e altri giornalisti, così come quattro blogger che avevano espresso sentimenti atei nei loro scritti. "Le affermazioni del governo che sarebbe il più aperto e democratico nella storia del Bangladesh, sono minate dalla censura delle voci critiche", ha detto Adams. "Il governo può adottare misure ragionevoli per limitare l'incitamento alla violenza, ma questo non significa che debba arrivare alla chiusura dei media dell'opposizione".

Arabia Saudita: direttore sito accusato di cyber-crimini, condanna a 7 anni e 600 frustate

Ansa 
Il direttore di un sito saudita è stato condannato a sette anni di reclusione e a 600 frustate per aver fondato un forum su internet che viola i valori dell'islam e fa propaganda del pensiero liberale. 

Lo riferiscono i media sauditi. Raif Badawi, autore del sito Free Saudi Liberals dove si discuteva del ruolo della religione in Arabia Saudita, è detenuto da giugno 2012 dopo essere stato accusato di cyber-crimini e disobbedienza nei confronti del padre che in Arabia Saudita è considerata un crimine. 

Il giudice, riferisce il quotidiano al-Watan, ha ordinato la chiusura del sito.

Stati Uniti: lo "svuota carceri" modello americano, Fremont lancia le celle a pagamento

Corriere della Sera
Centocinquanta dollari a notte. Per una vita dignitosa. Anche in galera. In California nasce la prigione esclusiva per ricchi. Prigioni sovraffollate e troppo costose da mantenere? La cittadina di Fremont, nei dintorni di San Francisco nella California settentrionale, vuole risolvere il problema e guadagnarci anche sopra.
Ma lo stratagemma impiegato assomiglia più all'offerta del mese di un sito di viaggi che a una nuova politica pubblica. Per 155 dollari a notte più un contributo una tantum di 45 dollari, i condannati per crimini minori, per esempio la guida in stato di ebbrezza, possono ora scontare le proprie pene nella nuova galera comunale, piccola, pulita e quasi sempre vuota. In questo modo, sostengono le autorità locali, i contribuenti recupereranno alcuni dei soldi investiti nella sua costruzione. Al contempo, per chi se lo può permettere, l'iniziativa rappresenta un'occasione ghiotta di sfuggire a ben più duri soggiorni nelle carceri sporche e gremite della vicina Oakland.

Le polemiche però non mancano. "Questo programma solleva una serie di questioni di uguaglianza e giustizia", ha detto a Lettera43.it Carl Takei, avvocato del National prison project (progetto delle prigioni nazionali) della American civil liberties union, la più grossa organizzazione no profit americana che si occupa della difesa dei diritti e delle libertà civili. "Si offre la possibilità a chi ha soldi di ricevere una punizione diversa da chi non ne ha".

Il problema del sovraffollamento delle carceri americane non è da sottovalutare. Dal 1970 a oggi, il numero di detenuti negli Stati Uniti è aumentato del 700%, ben oltre la crescita della popolazione complessiva e del tasso di criminalità. E la California è stata protagonista di questo fenomeno.

Nel luglio del 2011, la Corte Suprema degli Stati Uniti arrivò addirittura a ordinare che, date le condizioni disumane cui erano sottoposti i suoi detenuti, lo Stato ne riducesse drasticamente il numero di almeno 33 mila unità.

Il governatore Jerry Brown lanciò quindi una serie di riforme del sistema di giustizia pensate soprattutto per svuotare i grandi penitenziari statali. E tra le iniziative vi fu anche il trasferimento di migliaia di detenuti alle galere locali, gestite in maniera indipendente dalle municipalità e impreparate all'ondata di nuovi arrivi. Di qui l'idea delle forze dell'ordine di Fremont di mettere a disposizione del sistema carcerario regionale la propria struttura, che è per il momento sottoutilizzata.

Tuttavia, questo approccio ha il difetto di discriminare i prigionieri sulla base del reddito. Non una novità negli Stati Uniti. Si pensi agli imputati che si possono permettere gli avvocati famosi e quelli invece che, indigenti, devono accettare i servizi gratuiti dei legali messi a loro disposizione dal tribunale. E ancora, l'uso della cauzione.

"Tra tutti quelli che sono detenuti in attesa di giudizio, è rilasciato solo chi può versare una certa somma di denaro a garanzia del fatto che apparirà in tribunale durante il processo", ha spiegato a Lettera43.it Jesse Jannetta, ricercatore che si occupa di Giustizia presso l'Urban center di Washington Dc, "il che significa che l'aspetto meramente pecuniario determina ogni giorno la composizione della popolazione carceraria".

Anche altri tentativi fatti più di recente di ridurre il numero di detenuti finiscono per dipendere dai mezzi finanziari di chi è in galera. Numerosi distretti americani stanno ora sperimentando con il braccialetto elettronico, che monitora i movimenti dei condannati anche quando è permesso loro di tornare a vivere nelle proprie comunità.

La partecipazione a questi programmi è però molto spesso a pagamento, accessibile ancora una volta solo a chi se lo può permettere. Certo, ogni sforzo di svuotare le carceri migliora le condizioni di vita non solo di chi ne esce, ma anche di chi rimane dentro, ma in strutture più vivibili.

"A volte viene fatto il parallelo con il sistema stradale, diviso tra strade gratuite e autostrade a pagamento", ha spiegato Jannetta. "Di sicuro si separa chi ha i mezzi economici da chi non li ha, ma allo stesso tempo si alleggerisce il traffico per tutti". Una strategia ingiusta ma che piace, soprattutto in tempi di crisi economica e tagli alla spesa pubblica, con i contribuenti che sono poco propensi a pagare per un sistema, quello carcerario, estremamente costoso e difficile da gestire.

di Valentina Pasquali

martedì 30 luglio 2013

Caldo e carceri, programma di Sant'Egidio per alleviare i detenuti

Radio Vaticana
Caldo e alte temperature non danno tregua al paese. Oltre agli anziani ci sono delle categorie come gli emarginati, i senza fissa dimora e soprattutto i detenuti delle carceri italiane che ne accusano il duro colpo. La Comunità di Sant’Egidio nel periodo estivo cerca di alleviare per quanto possibile le sofferenze dovute alla caldissima stagione dei detenuti con programmi di aiuto assistenza e solidarietà. Federica Baioni ha intervistato sull’argomento la dott.ssa Francesca Zuccari della Comunità di Sant’Egidio: 

R. – Il sovraffollamento delle carceri chiaramente pesa molto in questo periodo estivo, dove il caldo è un’aggravante in più. La Comunità di Sant’Egidio, normalmente, visita i detenuti delle carceri di Rebibbia, di Regina Coeli, sostenendoli nella loro presenza in carcere. In particolare, d’estate distribuiamo generi di prima necessità, che sono molto importanti, perché in carcere molti sono poveri, non hanno mezzi e, soprattutto, non hanno famiglia. Diventa difficile, dunque, avere un cambio di vestiti oppure il sapone per lavarsi. Ci recheremo, quindi, nei vari reparti per distribuire questi generi. Le distribuzioni sono un’occasione importante d’incontro, perché ci dà la possibilità di parlare con questi detenuti, di raccogliere le loro richieste, di affrontare le situazioni più problematiche.

D. – Ci sono collaborazioni, se così possiamo chiamarle, tra i detenuti romani e i detenuti invece africani: occasioni di incontro ed assemblee. Ce ne parla?

R. – La Comunità è presente anche in molte carceri in Africa, dove evidentemente le condizioni di detenzione sono veramente molto dure. Chiediamo ai detenuti di fare qualcosa per queste persone che si trovano in una situazione di maggior bisogno rispetto a loro. I detenuti sono molto contenti di fare qualcosa: il fatto di poter aiutare qualcun altro dà sempre dignità a tutti, particolarmente a chi si trova in questa situazione. Ognuno, dunque, dà una propria offerta, anche piccola, ma che sanno arriverà a destinazione. Lì, infatti, abbiamo i nostri volontari – in Malawi e Mozambico – nelle carceri, per distribuire questi aiuti.

Pena di morte: nasce intergruppo parlamentare per abolizione

ASCA
Nasce l'intergruppo parlamentare contro la pena di morte. La prima riunione e' fissata per martedi' 30 luglio, a partire dalle ore 9 nella sala delle Colonne in via Poli. All'invito dell'On Mario Marazziti (SC) hanno gia' aderito piu'' di 150 deputati e senatori. 

L'on. Mario Marazziti (Scelta Civica), nel presentare l'iniziativa, ha dichiarato: ''L'Italia ha da anni un ruolo straordinario nella campagna mondiale per l'abolizione della pena di morte. L'iniziativa dei Parlamenti nazionali e' uno strumento efficace per favorire la diplomazia e le iniziative abolizioniste verso quei Paesi che ancora mantengono la pena capitale. L'integruppo italiano nasce con questo obiettivo e domani presenteremo le prime proposte e linee di azione di diplomazia parlamentare per le aree di crisi''.

Italia - Dozza - In carcere a due mesi con la mamma 19enne

Corriere della Sera
La madre è da 30 giorni al penitenziario della Dozza
Ziccone: «Ci vorrà tempo per trovare una soluzione»

BOLOGNA - In carcere a due mesi. Senza alternative valide, senza un progetto di vita. Sembra impossibile che una bimba di pochi mesi debba scontare in carcere parte della pena della madre, perfino quando questa è ancora in attesa di giudizio definitivo e rinchiusa in custodia cautelare, ma in Italia «ogni anno ci sono una sessantina di casi del genere, e a Bologna sono già tre o quattro». Massimo Ziccone, responsabile dell'area educativa del carcere bolognese della Dozza, conferma la notizia che da quasi 30 giorni una bambina di appena due mesi è reclusa insieme alla madre 19enne. La vicenda è stata resa nota dopo la visita in carcere dei due parlamentari Pd Sergio Lo Giudice e Rita Ghedini, che hanno denunciato pubblicamente - la notizia è stata ripresa da Radio Città del Capo - la presenza della bimba, chiedendo che venisse trovata una soluzione alternativa per evitare alla piccola altro tempo in cella insieme alla madre. Purtroppo, ancora non si sa quando la bimba potrà uscire dalla Dozza, nonostante Ziccone abbia spiegato che «in questi casi, dal carcere sollecitiamo sempre l'autorità giudiziaria competente (nello specifico un gip bolognese), affinchè la madre possa essere trasferita assieme al figlio in una struttura alternativa».

Il problema però non è di semplice soluzione: per quanto riguarda la situazione della 19enne in attesa di giudizio, ad esempio, da una parte «la ragazza ha dei precedenti importanti nell'ambito dello stesso tipo di reato», e questo non permetterebbe misure alternative alla custodia cautelare in carcere, e dall'altra «non ci sono parenti in Italia a cui affidare temporaneamente la bambina». Infatti, pur essendo italiana, «la madre ha il resto della famiglia in Croazia e anche il padre non è nel Paese».

Quale può essere la soluzione più rapida per far uscire la piccola dalla Dozza? Il responsabile dell'area educativa del carcere ha risposto che «di solito ci si appoggia anche a comunità e case famiglia all'interno del mondo del volontariato, ma spetta comunque al gip decidere se e quando». Ziccone resta in attesa della decisione dell'autorità giudiziaria, che si augura possa arrivare al più presto perché «fa veramente male vedere una bimba così piccola in carcere». Intanto alla Dozza stanno cercando di far passare meno ore possibili in cella alla madre e alla bambina: «Proviamo a farle stare il più possibile all'interno della ludoteca della sezione femminile, e cerchiamo di non far trascorrere alla madre tutta la giornata insieme alla figlia, perchè anche lei ha bisogno di respiro ogni tanto». In questo caso, è la mamma che decide tra i vari volontari, che sono a disposizione all'interno del carcere, a chi affidare la piccola per qualche ora. Sabato pomeriggio sono arrivati gli operatori di Telefono Azzurro, che vengono due volte al mese e intrattengono i bimbi giocando, in certi momenti anche in aree verdi, quando non fa troppo caldo.

Ziccone ha raccontato poi che in passato ci sono stati altri casi difficili: «Tempo fa era stata fermata all'aeroporto, per spaccio internazionale, una donna sudamericana con un bimbo di meno di tre anni. La donna non aveva parenti in Europa, e ci vollero diversi mesi prima che lei e il bambino venissero trasferiti in una casa famiglia».

Unione Camere Penali Ital. Lo svuota carceri licenziato dal Senato non svuota ormai più nulla - Pronti ad ogni iniziativa

Unione Camere Penali Italiane
Lo avevamo temuto ed avevamo messo in mora il Governo affinchè difendesse il decreto Cancellieri sulle carceri da chi voleva neutralizzarne gli effetti. Oggi ne abbiamo la conferma. La versione licenziata dal Senato che, fra le altre cose, ripropone la recidiva come ostativa ai benefici, perde di fatto ogni efficacia sul sovraffollamento carcerario. I penalisti si riservano ogni più opportuna e ferma iniziativa di protesta.

Congo-Kinshasa: Landry, 14 ans, évadé de la prison de Makala à Kinshasa

All Africa
Landry, 14 ans, était enfermé dans la prison de Makala à Kinshasa, la capitale de la République démocratique du Congo. Il a pu s'échapper à la faveur d'un soulévement de prisonniers dans la nuit du 2 au 3 juillet dernier. Aujourd'hui, il témoigne.

Je m'appelle Landry Kiangebeni, j'ai 14 ans. Maman nous a laissé il y a 4 ans. Papa s'est trouvé une autre femme, et avec cette femme, moi, le courant ne passe pas.

Elle est tombée enceinte, et plus tard, lors de l'accouchement, elle fera une fausse couche et me soupçonnera d'être sorcier, disant qu'elle me voyait dans ses rêves essayant de l'étrangler. Papa m'enverra dans une église dit de réveil.

Là, j'ai fui pour le marché de Bayaka à Ngiri Ngiri. Dans ce marché, j'ai rencontré beaucoup d'enfants comme moi. Pour vivre, je rendais service aux vendeuses qui me payaient avec quelques billets de banques.

Si je me suis retrouvé en prison, c'est par hasard, car je n'ai rien fait. Je pense et je suis sûr que c'est Mamu [une femme à qui Landry rendait service, NDLR] qui m'a accusé à la police. Le dernier vendredi où je lui ai rendu service, ses pagnes ont été perdus. Moi, je sais qui a fait ça, mais elle m'a fait arrêter.

Des camions te ramassent sans jugement pour la prison de Makala

Ici, à Kinshasa, la police arrête des innocents et, sans être entendus, des camions te ramassent sans jugement pour la prison de Makala.

Dans cette prison centrale, c'était dur pour moi, mieux valait le marché de Bayaka que Makala. J'allais totaliser 5 mois au mois de juillet, sans avocat, nous étions nombreux dans cet état.

Abandonnés à nous-mêmes, nous ne mangions presque pas, le plus souvent c'était soit à 21 heures ou tard la nuit. Et c'était nous, les petits, qui devions porter le bois pour préparer les haricots dans de grosses marmites.

C'est par miracle que je suis à nouveau dans la rue. La nuit du 2 au 3 juillet dernier, il y a eu une révolte de détenus contre des mesures prises par l'actuel directeur de la prison. Les détenus estiment qu'elles violent les droits des prisonniers. Dans ce climat, les plus vieux que nous ont réussi à faire tomber le mur de la clôture qui n'était plus fort. La police avait lancé un lacrymogène et c'est dans ce flou que nous avons réussi à fuir la prison.

Maintenant, je cherche à faire autre chose. je compte quitté ici pour Tshangu [un des 4 districts de Kinshasa, NDLR] où des amis m'ont dit qu'il y avait une école de football rien que pour des enfants de rue.

Rentrer chez mon père, jamais, je ne l'envisage pas.

Siria, civili vittime di esecuzioni extragiudiziali per lasciare priva di sostegno l'opposizione armata

Amnesty International
La popolazione civile che vive nei pressi delle basi dell'opposizione armata nel governatorato di Tartus è a rischio di ulteriori esecuzioni extragiudiziali, dopo la recente, deliberata uccisione di 13 componenti di una famiglia, tra cui donne e bambini, avvenuta nel villaggio di al-Baydah. Amnesty International ha sollecitato il governo siriano a porre immediatamente fine alle esecuzioni extragiudiziali.

Tra il 20 e il 21 luglio 2013, tre uomini, quattro donne e sei bambini di età compresa tra due e 13 anni sono stati ritrovati morti dentro l'abitazione di famiglia o nei suoi pressi. Poco prima, molto vicino all'abitazione, le forze governative si erano scontrate con gli oppositori armati.

Questo episodio è avvenuto a meno di tre mesi di distanza dall'uccisione di massa di oltre 250 civili nello stesso villaggio e nella vicina città di Banias.

Le ricerche condotte da Amnesty International in quell'occasione attribuirono alle forze governative l'uccisione di 138 persone a Banias e di altre 130 ad al-Baydah. Molti abitanti vennero presi casa per casa, senza risparmiare donne e bambini, allineati e poi passati per le armi. Altri vennero uccisi all'interno delle abitazioni, molte delle quali vennero saccheggiate e date alle fiamme.

"Temiamo che la popolazione civile di al-Baydah e Banias, soprattutto chi vive vicino alle basi dell'opposizione armata, sia deliberatamente presa di mira con l'obiettivo di sfollare il maggior numero possibile di persone e lasciare così scoperta e priva di sostegno locale l'opposizione armata" - ha dichiarato Philip Luther, direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.

"Le forze governative paiono muoversi indisturbate in questa zona e uccidere nella completa impunità. È necessario che gli ispettori delle Nazioni Unite entrino immediatamente in Siria per indagare su tutte le uccisioni di civili a partire dall'inizio della rivolta, oltre due anni fa" - ha concluso Luther.

lunedì 29 luglio 2013

Carcere - Un altro suicidio suicidio: aveva fatto esplodere la propria casa per protesta contro lo sfratto

Ristretti Orizzonti
Accusato di “tentata strage”, era detenuto da giugno 2012 in attesa del processo. Il suo avvocato aveva chiesto il ricovero in una struttura alternativa al carcere, inutilmente. In 13 mesi cambia tre carceri e viene sottoposto a perizia psichiatrica. 
Mario Vignoli, 66 anni, meglio conosciuto come “Pietro l’eretico”, quando l’ufficiale giudiziario si presenta sotto casa per sfrattarlo, apre la bombola del gas e accende un fiammifero. Nell’esplosione, avvenuta la mattina del 20 giugno 2012 al civico 97 di Strada Francesca Est, a Rivalta di Rodigo (Mn), lui si salva, perdendo soltanto i sensi. Un carabiniere all’esterno resta lievemente ferito. 

Accusato di “tentata strage” finisce nel carcere di Mantova, poi in quello di San Vittore ed infine a Cremona, dove ieri si impicca nel bagno della cella. Gli agenti della Polizia Penitenziaria lo soccorrono prontamente, ma non si riprende e questa mattina muore in Ospedale.

Al momento dello scoppio a poca distanza dalla porta della casa dove Vignoli si è asserragliato dopo l’arrivo dell’ufficiale giudiziario con la notifica dello sfratto, c’è anche Claudio Maestrelli, un amico d’infanzia, accorso per provare a far ragionare Vignoli. “È disperato, ma non è un criminale. Aveva bisogno di aiuto, ma non l’ha trovato da nessuna parte”.

Il Sindaco di Rodigo, Gianni Chizzoni, replica: “Mi dispiace tanto dal punto di vista umano, ma come Comune non potevamo davvero fare di più. È venuto a chiedere aiuto nei nostri uffici, ed era in contatto con i servizi sociali”.

Di professione Mario Vignoli faceva il carrozziere, ma negli ultimi tempi il lavoro era sempre meno e di conseguenza i soldi per l’affitto scarseggiavano, così la casa dove aveva costruito il suo rifugio e messo i libri di storia che divorava tutti i giorni, era stata messa in vendita con lo sfratto esecutivo per lui.

Curioso personaggio, noto per il suo abbigliamento stravagante, imitazione dei paramenti sacri e per le sue incursioni con cartelli e striscioni in cui si scagliava contro la decadenza dei costumi, si era lanciato in una sfida a senso unico contro la Chiesa e il potere ecclesiastico.

Aveva fatto incursioni nelle chiese della zona durante la messa, era salito a Palazzo della Ragione in occasione del convegno su Leone IX per manifestare il suo dissenso, fino al 2 giugno, quando si era spinto fino in piazza Duomo a Milano durante la visita di Papa Ratzinger. Aveva cominciato a inveire contro i costumi della Chiesa, ma era stato fermato dagli agenti della Digos che scortavano il pontefice e poi denunciato.

Nepal, su “consiglio” della Cina parte la sorveglianza dei rifugiati tibetani

AsiaNews
Da oggi sono attive 19 telecamere di sicurezza nelle aree di Boudhanath e Jorpati, a maggioranza tibetana. Monaci e attivisti per i diritti umani definiscono la mossa “antidemocratica” e accusano Kathmandu di assecondare Pechino, che in cambio avrebbe promesso aiuti economici.


Kathmandu  - Inizia oggi il programma di controllo e sorveglianza su rifugiati e attivisti tibetani in Nepal. Il governo di Kathmandu ha installato telecamere di sicurezza a Boudhanath Stupa e Jorpati, aree ad alta densità tibetana nella capitale. L'obiettivo, spiegano le autorità, è di monitorare le attività di rifugiati, attivisti per i diritti umani e sostenitori della causa tibetana, per evitare ogni tipo di piano, campagna o attività anti-cinese. Secondo fonti di AsiaNews, anonime per motivi di sicurezza, "il programma di controllo è frutto della pressione del governo cinese. Pechino ha promesso aiuti economici in cambio di questo servizio di sorveglianza".

Il programma è costato al governo 2,5 milioni di rupie nepalesi (circa 19.800 euro). Come spiegato dalla polizia, 19 telecamere CCTV controlleranno le attività nelle aree a maggioranza tibetana, mentre altre 16 telecamere saranno concentrate nella sola zona del Boudhanath Stupa, luogo sacro al buddismo situato a Kathmandu. Secondo le autorità infatti, Boudhanath e Jorpati sono "la zona calda del movimento Free Tibet e delle attività anti-cinesi".

Le agenzie di controllo nepalesi registreranno qualunque cosa: dal traffico stradale e pedonale, alle attività religiose in corso nei templi. Molti monaci tibetani e attivisti hanno già criticato la mossa di Kathmandu. Secondo Ananda, un leader religioso buddista, "riprendere le attività di preghiera all'interno del Boudhanath Stupa viola i diritti democratici".

di Kalpit Parajuli

Il Nepal ha 1.414 km di frontiera in comune con il Tibet e dal 1990 al 2006 la monarchia parlamentare, su consiglio dell'India, ha consentito la libera circolazione degli esuli tibetani nel Paese. Il Dalai Lama e i membri del governo tibetano in esilio a Dharamsala (India) hanno visitato più volte il Paese, che ospita più di 20mila rifugiati. Dopo l'abolizione della monarchia nel 2006 e la salita al potere di formazioni maoiste e comuniste il Nepal ha cambiato rotta, abbandonando lo storico alleato indiano e allacciando stretti rapporti con la Cina. In cambio di aiuti economici Pechino ha chiesto la chiusura delle frontiere con il Tibet e la repressione di qualsiasi manifestazione anticinese.

Emergenza Siria: cresce la xenofobia e il razzismo verso i rifugiati siriani in Egitto e Libano, gravi misure prese nei loro confronti

Immigrati Oggi
L’Unhcr lancia un appello affinché i diritti dei rifugiati siano rispettati.

Una ondata di xenofobia sta rovinando la vita di migliaia di profughi siriani in Paesi come l’Egitto e il Libano, dove diventano spesso capri espiatori per i problemi interni. In Egitto, i siriani sono accusati di prendere posizione e di interferire nella crisi politica del Paese, mentre in Libano sono accusati di rubare lavoro ai libanesi. 


I media egiziani hanno svolto un ruolo fondamentale nella diffusione di sentimenti anti-siriani, accusandoli di unirsi a proteste in sostegno del deposto presidente Mohamed Morsi.
“Dobbiamo boicottare i negozi siriani perché usano i nostri soldi per terrorizzarci”, recita un messaggio diffuso tramite social network. 

I media sono anche più espliciti: il popolarissimo canale ONTV ha mandato in onda sproloqui anti-siriani avvertendo: “Siriani, se vi immischiate nei nostri affari, i nostri stivali vi pesteranno per le strade”, ha detto il giornalista Yousef al-Husseini. Infelice minaccia cui sono presto seguite scuse ufficiali. Poiché i Fratelli Musulmani (di cui il deposto presidente è esponente) fanno parte dell’opposizione siriana, si è diffuso lo stereotipo che i rifugiati siriani siano dei Fratelli Musulmani, generalizzazione non solo non vera ma anche pericolosa.

Il Cairo ha ora imposto nuove regole che obbligano i siriani a richiedere un visto, prima non necessario, e sono numerosi i casi di pestaggi, arresti arbitrari e persino espulsioni verso la Siria di molti rifugiati. L’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) ha espresso le sue preoccupazioni a proposito. La portavoce Melissa Fleming ha detto che tra gli arrestati e i detenuti sono inclusi diversi minorenni e siriani registrati presso l’Unhcr. “Un numero crescente di siriani esprime la paura di essere arrestati se circolano in pubblico”, ha dichiarato la Fleming.

Diversi voli che trasportavano siriani sono stati respinti dagli aeroporti egiziani e rimandati in Siria. Circa 476 siriani sono stati deportati o gli è stato negato l’ingresso in Egitto, da quando tali misure sono state messe in atto in data 8 luglio. La portavoce continua: “Chiediamo al governo di garantire che le misure cautelari prese alla luce della situazione della sicurezza nel Paese non violino i principi fondamentali dei diritti umani e le responsabilità internazionali di fornire asilo e protezione ai rifugiati”.

In Libano, che ospita circa 600.000 rifugiati siriani, il risentimento verso i rifugiati è legato a problemi socio-economici. Un recente sondaggio ha mostrato che l’ 82% dei libanesi accusa i siriani di rubare lavoro, mentre per il 70% sarebbe spiacevole anche la condivisione di un pasto con loro. Più del 54% dei libanesi ritiene che si dovrebbero chiudere del tutto le frontiere ai siriani. Anche Beirut ha pertanto deciso di adottare misure più rigorose per l’ammissione di siriani in Libano. Il ministro delle finanze Nicolas Nahhas ha dichiarato che i siriani in Libano hanno il diritto al lavoro “tranne che in affari e commercio”. Sostiene che causano “concorrenza sleale”, dopo che 377 imprese siriane illegali sono state chiuse. Inoltre, in diversi villaggi sono stati apposti striscioni per imporre ai siriani il coprifuoco dopo le 18.


Troppo spesso in Libano si sente commentare che “questi siriani stuprano le nostre figlie” e “diffondono malattie”. Tuttavia, tali osservazioni razziste sono in netto contrasto con l’accoglienza concessa da molti libanesi ai rifugiati, in particolare nelle zone di confine. “I libanesi hanno conosciuto la guerra in tutte le sue forme”, spiega l’Osservatorio libanese per i diritti dei lavoratori e degli impiegati. “Sappiamo fin troppo bene che cosa significa essere un rifugiato. Il popolo siriano ci ha accolto in passato. Dobbiamo fare lo stesso”.
(Samantha Falciatori)

Israele: il Governo approva rilascio 104 prigionieri palestinesi

Adnkronos
Il governo israeliano ha approvato la proposta del premier Benjamin Netanyahu per la liberazione di 104 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane da prima degli accordi di Oslo del 1993. Secondo quanto riferisce la radio israeliana, tredici ministri, compreso il premier, hanno votato a favore della proposta, mentre sette sono stati i ministri contrari. La decisione è stata presa nell'ambito della ripresa del negoziato di pace con i palestinesi, in programma a Washington questa settimana.

Israele libererà 104 detenuti palestinesi pre-Oslo
Il governo israeliano domani dovrebbe approvare il rilascio di 104 detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane da prima degli accordi di Oslo. Lo riferisce il quotidiano Haaretz, sottolineando che in precedenza era stato indicato il rilascio di 82 prigionieri. Secondo un funzionario del governo israeliano, anche la tempistica in quattro fasi per la liberazione dei detenuti, decisa nell’ambito della ripresa dei negoziati con i palestinesi, è destinata a cambiare. La decisione verrà sottoposta ad approvazione nella riunione di governo di domani.

domenica 28 luglio 2013

Pakistan - Bhatti: Asia Bibi, la sua detenzione è intollerabile, una ingiustizia terribile

Avvenire
«Per chi è impegnato per la giustizia e per la convivenza, Asia Bibi rappresenta anzitutto una figura sofferente, un caso di ingiustizia terribile: la sua detenzione è intollerabile».

Così risponde il cattolico Paul Bhatti, ex ministro pachistano per l’Armonia religiosa (che sarà in Italia a fine agosto ospite del Meeting di Rimini) , alla domanda che cosa rappresentano i 1.500 giorni di carcere di Asia Bibi.

Lei è tra i leader riconosciuti del movimento per la giustizia e il dialogo in Pakistan. Quali sono i suoi sentimenti, oggi, rispetto alla vicenda di Asia Bibi?
Di amarezza, perché noi che la sosteniamo ci sentiamo incapaci di risolvere questo problema. Un problema grave ma che ha implicazioni che a volte sfuggono. Voglio solo ricordare che per il coinvolgimento internazionale, abbiamo perso due personaggi importanti, tra cui mio fratello Shahbaz. Intollerabile l’accusa di blasfemia, intollerabile l’odissea di molte vittime ma non sono problemi che si possono affrontare con superficialità. Tornando a Asia Bibi, il mio parere è che il suo caso è stato finora gestito non nel modo migliore, che non si è operato in modo efficace per arrivare a una sentenza definitiva e non sono stati favoriti un dibattito e anche una protesta aperta. Noi, come Apma (All Pakistan Minorities Alliance, Alleanza di tutte le minoranze del Pakistan), coinvolti allo stesso modo in attività sociali e politiche, siamo stati criticati per non avere preso direttamente in mano il caso, per non esserci esposti. In realtà, io stesso avevo chiesto di seguirlo ma non mi è stato concesso.

Quali sono oggi le prospettive per Asia Bibi?
Tenendo presente quanto ho già detto, il caso è in tribunale e non possiamo imporci anche se riteniamo sbagliata l’accusa. Occorrerebbe avere avvocati di alto livello, energie giuste per dimostrare la sua innocenza. Il messaggio prevalente è che lei ha commesso oltraggio verso la fede islamica, occorre quindi anzitutto che i giudici si pronuncino sulla sua innocenza. Solo dopo questo passaggio si potrà operare meglio per coinvolgere la popolazione, inclusi gli estremisti, in un processo di comprensione dei limiti e degli abusi della legge antiblasfemia.

Può sintetizzare l’impegno di suo fratello, l’attività di Apma e la sua?
L’Apma è nata nel 2002 su iniziativa di mio fratello Shahbaz (ministro per le Minoranze assassinato il 2 marzo 2011) per meglio coordinare le iniziative dei cristiani e delle altre minoranze, prima attivi in modo separato. Obiettivo principale è la difesa dei gruppi più deboli della popolazione, a partire dai cristiani e dalle altre minoranze perseguitate. Abbiano un centro di pace e armonia, dialoghiamo con leader religiosi. Non abbiamo ancora parlato con il nuovo governo della legge antiblasfemia, ma siamo impegnati a portare alla conoscenza dell’opinione pubblica le accuse false e le conseguenze per le vittime innocenti.

A che punto sono oggi i rapporti tra cristiani e musulmani in Pakistan?
I nostri rapporti con i musulmani devono essere calibrati secondo la realtà dell’islam pachistano, dove vi sono molti favorevoli a tolleranza e dialogo, a anche elementi intolleranti e fanatico. Inoltre, vi sono altri che si dichiarano musulmani ma nella pratica non ne seguono davvero gli insegnamenti e che cercano di piegarlo a diversi interessi, usando anche la violenza. Quello che possiamo fare contro l’ideologia terroristica imperante è un impegno che faccia capire che è un’ideologia erronea, manipolata per scopi politici e prettamente personali.

In che modo il governo in carica, di tendenza islamista moderata, può promuovere un cambiamento?
Questo governo ha il vantaggio di essere forte, di non dovere misurare le alleanze e dipendere anche dal sostegno di forze religiose. Di conseguenza potrebbe essere più incisivo. Penso che, date l’insicurezza, la cattiva situazione economica, l’instabilità politica, tutto il Paese cominci a capire che una delle cose fondamentali è arrivare alla pace, avviando il dialogo tra tutti i gruppi e con quanti sono ancora discriminati. Anche combattendo i violenti che fanno continuamente vittime. A livello ufficiale, non esiste ancora una presa di posizione forte a favore delle minoranze, ma questo può essere solo di stimolo alle loro rappresentanze a premere insieme per ottenere il cambiamento.

Stefano Vecchia

sabato 27 luglio 2013

Africa: Australian Bishop Calls for "Decent Treatment" for Asylum Seekers

All Africa

The chair of the Melbourne Anglican Social Responsibility Committee, the Rt Revd Philip Huggins, Assistant Bishop of the Northern Region of Melbourne, has called for asylum seekers in Australia to receive "decent treatment" from the Australian government.
The Bishop was speaking after 700 asylum seekers were sent to Christmas Island under a plan which would see those granted refugee status settled in Papua New Guinea (PNG) rather than Australia. The plan has already been criticised by Bishop John Harrower who tweeted: "Mr Prime Minister, Jesus weeps. Whatever you do for the least of these..."

The United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) has now warned that Australia's policies might breach international human rights law, deflecting its responsibilities under the refugee convention. It said that PNG lacked the "national capacity and expertise" to process the applications, and that "poor physical conditions within open-ended, mandatory and arbitrary detention settings . . . can be harmful to the physical and psycho-social wellbeing of transferees, particularly families and children."

Bishop Huggins said that the attention focused on the new PNG arrangements should not detract from the rights of asylum seekers already in Australia. "Once the normal security and health checks are done, they should all be released into the community. They should be given access to both education and employment whilst their refugee status is assessed. Let us treat those who are here decently, even whilst the new arrangements with Papua New Guinea are bedded down."

Bishop Huggins called for Australia's "no advantage" policies, which restricts the freedom of asylum seekers, to be abolished, describing them as "so punitive and ineffective, demeaning us all."

But he welcomed the "better regional co-operation" that is part of the PNG arrangements, "especially if it impacts on the criminals behind people smuggling."

He said: "Their dangerous, overcrowded boats have caused so much suffering. It is good, too, that the way might now be clearer for more of the refugees languishing in UNHCR camps to have a better hope of resettlement in Australia."

His statement comes shortly after the the United Nations Refugee Agency launched a declaration that aims to strengthen protection for the world's refugees as well as internally displaced and stateless people, who account for more than 40 million people in the world.

A number of faith-based groups, including the Office of the Archbishop of Canterbury, helped to develop the declaration. Others involved in the process include the World Council of Churches, the Jesuit Refugee Service, the University of Vienna Faculty of Roman Catholic Theology, the Lutheran World Federation and the World Evangelical Alliance.

The "sacredness of all human life and the sanctity of creation" are central to Christian beliefs," said Sydia Nduna, the WCC programme executive for Migration and Social Justice, "Our Christian faith compels us to ensure that human life, physical security and personal safety are upheld in the law and institutions."

Svizzera, Austria, Germania e Liechtenstein contro la pena di morte

SWISS Info
La lotta contro la pena di morte è stato il tema al centro dei colloqui tenutisi oggi a Salisburgo tra il ministro degli affari esteri Didier Burkhalter e i suoi omologhi di Germania, Austria e Liechtenstein nel loro tradizionale incontro annuale. I rappresentanti dei quattro paesi tedescofoni intendono rafforzare l'impegno nel Consiglio d'Europa affinché venga abolita.
Concretamente gli Stati si sforzano affinché tutti i membri del Consiglio d'Europa ratifichino "il Protocollo nr.13 per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, relativo all'abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza", ha comunicato Tilman Renz, portavoce del Dipartimento federale degli Affari esteri (DFAE) a conclusione dell'incontro.

Burkhalter ha tra l'altro presentato le priorità sulle quali la Svizzera intende concentrarsi l'anno prossimo durante la sua presidenza dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione (OSCE). Con l'Austria, che dal novembre 2013 fino al maggio 2014 deterrà la presidenza nel Consiglio d'Europa, si vogliono "portare avanti progetti concreti", è stato indicato.

Altri temi toccati sono stati la situazione in Egitto e Medio Oriente. Per quanto riguarda la Siria Burkhalter, il ministro austriaco Michael Spindelegger, il tedesco Guido Westerwelle e la ministra del Liechtenstein Aurelia Frick hanno sottolineato la necessità di una soluzione politica invece di uno scenario militare.

Prima dell'incontro a quattro Burkhalter ha avuto un colloquio con Heinz Fischer, presidente federale austriaco.

L’Onu a Israele: «No alla demolizione di 35 villaggi e allo spostamento forzato di 40.000 beduini»

greenreport.it
L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, ha esortato Israele a «riconsiderare il progetto di legge che comporterebbe la demolizione di 35 villaggi beduini e forzerebbe 40.000 membri di questa comunità ad abbandonare le loro terre ancestrali».
Pillay ha ricordato al governo di centro-destra israeliano che «in quanto cittadini di Israele, i beduini arabi devono godere degli stessi diritti alla proprietà, all’abitazione e ai servizi pubblici di qualsiasi altro gruppo in Israele. Il governo deve riconoscere e rispettare i diritti specifici delle comunità beduine, comprese le loro rivendicazioni sulla terra».

Ma l’appello dell’Onu difficilmente verrà ascoltato in un Paese che ha messo in piedi una specie di apartheid, dagli arabi, dai beduini considerati “collaborazionisti” dalle altre etnie, per finire con gli immigrati neri di origine etiope.

In prima lettura il progetto di legge Prawer-Begin è stato adottato il 24 giugno da una risicata maggioranza alla Knesset e dovrà passare in seconda e terza lettura prima della fine di luglio. Pillay è molto preoccupata perché «questo progetto cerca solo di legittimare lo spostamento forzato e lo spossessamento delle comunità autoctone beduine installate nel deserto del Negev, nel sud di Israele, senza riconoscere i titoli fondiari che possiedono tradizionalmente nella regione».

In cambio il progetto di legge offre ai beduini risarcimenti ridicoli e a condizione che si installino in una delle 7 zone urbane di popolamento beduino ufficialmente create dal governo. Siamo ai Bantustan sull’esempio sudafricano, con i beduini che vengono allontanati dalle zone del Negev troppo vicine alla centrale nucleare di Dodome ed ai suoi segreti atomici militari, ma anche da Gaza e dal Sinai egiziano sempre più strategiche che Israele vuole circondare con insediamenti ebraici.

Lo sa anche Pilay che ha detto: «Se questa legge dovesse vedere la luce, accelererebbe, nel nome dello sviluppo, la distruzione di intere comunità, forzandole ad abbandonare le loro case, privandole dei loro diritti di proprietà della terra e portando un colpo fatale al loro modo di vita tradizionale».

L’Alto Commissario Onu ha anche ricordato che «la Commissione Goldberg, istituita nel 2008 dal governo israeliano, aveva riconosciuto che i beduini del Negev dovevano essere considerati come cittadini uguali che hanno legami storici con la terra e che sono dei residenti legittimi del Negev. Il rispetto dei diritti legittimi delle minoranze è un principio fondamentale in ogni democrazia. E’ spiacevole che il governo israeliano persegua attivamente una politica discriminatoria verso i suoi cittadini di origine araba».

Pilay ha concluso dicendo che «un riesame del progetto di legge deve prevedere un procedimento veramente consultivo e partecipativo che coinvolga tutti i rappresentanti delle comunità beduine nel Negev».
Già il 28 maggio l’United Nations relief and works agency (Unrwa) aveva pubblicato uno studio sulle conseguenze del re-installamento forzato di 150 famiglie palestinesi di origine beduina in seguito all’espansione del 1997 della colonia ebraica di Ma’ale Adummim, illegale come tutte le altre secondo il diritto internazionale.

Lo studio, pubblicato insieme all’Ong israeliana Bimkom, dimostra che la situazione di queste famiglie trasferite nel villaggio di Al Jabal «è invivibile sia sul piano economico che sociale. La reinstallazione intorno ad un solo polo urbano sta effettivamente distruggendo la coesione sociale e l’economia di base di queste comunità pastorali e nomadi».

Secondo il portavoce dell’Unrwa, Chris Gunness, « le autorità israeliane pensano di creare un secondo villaggio beduino nella Cisgiordania occupata: Le conclusioni senza ambiguità di questo rapporto potrebbero condurre ad una revisione del progetto».

Quella della piccola comunità beduina scacciata da Ma’ale Adummim sembra la prova generale della ghettizzazone forzata dei beduini israeliani: le comunità che dovevano farne parte hanno respinto il progetto di re-installazione, denunciando danni irreversibili al loro modo di vita ed alla loro economia tradizionale.

«Come nel caso del villaggio di Al Jabal – dicono Unrwa e Bimkom – se questo re-insediamento dovesse aver luogo, sarebbe simile ad una espulsione forzata, incompatibile con il diritto internazionale».

Bimkom sottolinea che «l’allocazione di una piccola parcella di terreno per ogni famiglia, collegata alle infrastrutture di base, può portare a delle violazioni dei loro diritti fondamentali. In effetti, gli aspetti socio-culturali devono essere presi pienamente in considerazione, mentre il progetto dovrebbe essere adottato e condotto congiuntamente con gli abitanti dei villaggi».

Kazakistan, armi, petrolio, gas: i diritti civili possono attendere

Globalist
Gli affari di guerra e petrolio e gas tra Roma e Astana. Diritti umani, dei lavoratori, ambiente e libertà di stampa possono attendere
Mentre gli addetti ai lavori consigliano di riguardarsi il filmino della visita di Letta in Kazakistan, la prima gita da premier, l'Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere, invia una richiesta urgente al Questore e Prefetto di Brescia per conoscere tipologia e destinatari delle armi recentemente esportate dalla città lombarda, capitale del distretto delle armi, verso il Kazakistan. Chiede inoltre ai parlamentari di rivolgere un'interrogazione urgente per sapere se il Governo ha autorizzato nel 2013 altre esportazioni di armi destinate alle Forze Armate, alla Polizia e alle forze di sicurezza e per sospenderle immediatamente finché non sia chiarita la situazione del trattamento dei dissidenti in Kazakistan.

L'Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia s'è mosso a seguito della risonanza nazionale del caso della moglie dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, Alma Shalabayeva, e della figlia di sei anni, Aluy Ablyazova. Una storia sollevata per primi da noi di Popoff. Il nostro articolo è stato utilizzato per costruire la recente mozione di sfiducia al ministro di polizia Alfano restato in sella solo grazie alla pervicacia del Pd e del governo Letta.

«Il nostro osservatorio - afferma Piergiulio Biatta, presidente di OPAL - da tempo sta monitorando le esportazioni di armi dalla provincia di Brescia, in relazione alla situazione dei diritti umani nei paesi destinatari. Siamo sorpresi nel vedere che, nonostante le ripetute denunce di violazioni delle libertà democratiche e civili da parte delle forze dell'ordine kazake, continuano le esportazioni di armi verso quel paese dall'Italia e soprattutto da Brescia, la provincia in cui si concentra la maggior produzione di armi italiane».

Sono molteplici e di lunga data le violazioni messe in atto dal regime del presidente kazako, Nursultan Nazarbayev fin dall'ascesa al potere del suo partito nel dicembre 1991. Come riportato tra gli altri da Amnesty International, nel dicembre del 2011 le Forze dell'ordine intervennero per reprimere brutalmente le manifestazioni nella città petrolifera Zhanaozen: almeno 15 persone furono uccise e oltre 100 gravemente ferite dalle forze di sicurezza. Decine di persone vennero arrestate, imprigionate in celle sotterranee e sovraffollate delle stazioni di polizia e torturate - riporta Amnesty International.

[...]
I siti internazionali ricordano quando, nell'agosto del 2007, il governo kazako ha avviato la rinegoziazione degli accordi di sfruttamento del mega giacimento di Kashagan si mossero tutti i livelli della diplomazia europea e nazionale per evitare che il giacimento passasse in mano russa o cinese. Infatti vinse un consorzio guidato da Eni, i cui costi complessivi sono stati stimati lo scorso anno a 187 miliardi di dollari. Nell'ottobre 2007, Romano Prodi e Emma Bonino (allora ministro del Commercio con l'Estero) hanno guidato una delegazione di oltre 200 industriali italiani, partecipando al Forum Economico Italia-Kazakistan ad Astana, organizzato assieme ad Abi e Confindustria. A margine dell'evento hanno "visitato" assieme a Paolo Scaroni (anche allora ad Eni) il giacimento di Kashagan. Come ricorda Elena Geremizza su Recommon: L'Italia ha sostenuto l'entrata del Kazakistan nell'organizzazione mondiale del commercio e la candidatura del paese alla presidenza Osce
, mentre, durante il governo Berlusconi, ha firmato in un sol colpo 14 accordi economici bilaterali con il paese. Il tutto in occasione della visita a Roma di Nazarbayev, che Berlusconi definì «un caro amico».


Petrolio e gas per miliardi di barili e metri cubi vincono sui ripetuti appelli di Amnesty International e Human Rights Watch. L'ambiente, i diritti umani, quelli dei lavoratori e la libertà di stampa restano al palo. Kazakistan, l'Azerbaigian e il Turkmenistan sono partner strategici europei per l'approvvigionamento del gas, mentre la stessa Commissione europea sta negoziando il primo accordo multilaterale per il gasdotto Trans Caspian per la fornitura di gas kazako e turkmeno.
di Checchino Antonini 

Marocco: Nel 2012 ancora tante violazioni dei diritti umani - Catastrofica la condizione dei detenuti

ANSAmed
RABAT - Perpetuazione di violazioni di genere politico, economico, sociale e culturale e una netta regressione dei diritti dell'uomo. E' quanto denuncia l'Associazione marocchina dei diritti dell'Uomo (AMDH), nel rapporto sul Marocco nel 2012, presentato in questi giorni.

In particolare, il rapporto definisce inquietante e catastrofica la condizione dei detenuti, per via di "mancanza di condizioni igieniche adeguate, cattiva alimentazione e medicinali insufficienti".

L'AMDH ha denunciato, inoltre, il divieto d'esercizio imposto ad alcune associazioni, aggressioni contro giornalisti e "numerosi processi ingiusti, contro un rapper, un gruppo di salafiti o ancora contro saharaoui indipendentisti, e la pena di morte non è ancora stata abolita".

Sono evidenziate le violazioni al codice del lavoro in tutti i settori, l'aumento della disoccupazione, "un terribile deficit di risorse umane" riguardo la sanità pubblica, con un medico ogni 1630 abitanti e la situazione dei migranti espulsi, vittime di razzismo e violenze da parte della polizia.

"Nonostante gli impegni presi a livello nazionale ed internazionale - conclude il rapporto - lo Stato manca di una volonta politica effettiva per il rispetto dei diritti e delle libertà".

Egitto, numerosi siriani in carcere Clima di ostilità verso i profughi

La RepubblicaL'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati segnala arresti e detenzioni arbitrari di un numero crescente di cittadini siriani, da parte dell'esercito e degli agenti di sicurezza egiziani. L'Agenzia dell'ONU ha richiesto di poter visitare 85 cittadini siriani detenuti, per i quali sono state chieste garanzie che non fossero rinviati nel proprio paese

ROMA - L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) esprime preoccupazione per gli arresti e le detenzioni arbitrari di un numero sempre maggiore di cittadini siriani - compresi diversi minori e persone registrate con l'UNHCR - da parte dell'esercito e degli agenti di sicurezza egiziani, in un clima che appare sempre più ostile ai siriani. L'Agenzia dell'ONU ha richiesto di poter visitare 85 cittadini siriani detenuti, per i quali sono state chieste garanzie che non fossero rinviati nel proprio paese, evidenziando che essi dovrebbero essere sottoposti ad un processo equo e attuato seconda le dovute forme di legge in Egitto.

Una crescente ostilità anti-siriana. Questo nuovo clima di ostilità è sorto a seguito delle accuse secondo le quali alcuni cittadini siriani avrebbero preso parte alle proteste e ad atti di violenza, nel corso del mese di luglio. Vi sono stati poi numerose informazioni relative a commenti xenofobi e aggressioni verbali nei confronti di siriani, compresi allarmanti affermazioni compiute attraverso alcuni media. Fin dall'inizio del conflitto in Siria, i cittadini siriani hanno potuto beneficiare di un ambiente estremamente ospitale in Egitto. Il governo egiziano ha rilasciato visti e permessi di soggiorno illimitati, garantendo anche il pieno accesso ai servizi pubblici. I siriani non hanno avvertito l'urgenza di rinnovare - come richiesto - i permessi di soggiorno scaduti. Adesso un numero sempre maggiore di siriani esprimono il timore di essere arrestati per il semplice fatto di frequentare luoghi pubblici.

La richiesta d'aiuto all'UNHCR. Tale ambiente ostile ha innescato un ragguardevole aumento nel numero di cittadini siriani che si sono rivolti all'UNHCR per essere registrati. Sulla base di stime del governo, attualmente sarabbero tra i 250 e i 300 mila i siriani che risiedono in Egitto. Solo ieri, 80 mila si erano registrati presso l'UNHCR, mentre circa 28.800 avevano già un appuntamento per la registrazione per le prossime settimane. Il governo egiziano inoltre ha di recente introdotto nuovi requisiti per l'entrata dei cittadini siriani, tra cui autorizzazioni di sicurezza e visti da detenere prima di viaggiare verso l'Egitto.

Centinaia di persone deportate. Diversi voli con a bordo siriani sono pertanto stati rinviati indietro da aeroporti egiziani verso gli scali di partenza, tra cui Damasco e Latakia in Siria. Circa 476 cittadini siriani sono stati deportati (o è stato loro negato l'ingresso nel paese) finché - l'8 luglio - tali misure non sarebbero entrate in vigore. L'UNHCR ha rivolto un appello al governo egiziano affinché consideri la possibilità di consentire l'ingresso nel paese - senza restrizioni di visto - almeno a donne, bambini e anziani.

L'apprezzamento e l'esortazione. L'Agenzia apprezza l'affermazione compiuta dal governo dell'Egitto sul fatto che i cittadini siriani sono benvenuti nel paese. Ma allo stesso tempo esorta il governo a garantire che ogni misura precauzionale, alla luce delle attuale situazione della sicurezza nel paese, non violi i principi fondamentali dei diritti umani e le responsabilità internazionali del paese nel fornire asilo e protezione ai rifugiati.

Usa: diminuisce la popolazione carceraria per tre anni consecutivi, è una svolta epocale

Adnkronos
La popolazione carceraria negli Stati Uniti è diminuita nel 2012 per il terzo anno consecutivo, secondo quanto riportato nelle statistiche federali di cui riferisce il New York Times. 

Si tratta, a detta degli esperti, del calo più consistente nella storia recente e segna un deciso cambiamento di rotta dopo quasi quattro decenni di generalizzato ricorso alla carcerazione. 

Come indicano i dati dell’ufficio statistico del Dipartimento di Giustizia, il numero dei detenuti nelle carceri statali e federali è diminuito dell’1,7%, per un numero totale di detenuti pari a 1.571.013 nel 2012, rispetto a 1.598.783 nel 2011. 

Si tratta, in percentuale, di uno spostamento lieve, ma il fatto che faccia seguito al calo già registrato nel 2011 e nel 2010 conferma quello che alcuni esperti definiscono un “cambiamento epocale” nell’approccio dell’America alla giustizia penale. “Questo è l’inizio della fine della carcerazione di massa”, afferma Natasha Frost, rettore associato della Scuola di criminologia e diritto penale alla Northeastern University.

Rio de Janeiro - Commovente incontro di Papa Francesco con i giovani detenuti: "Mai più violenza, solo amore!"

News.va
Subito dopo le confessioni c’è stato il commovente incontro del Papa in arcivescovado con otto giovani detenuti, accompagnati da alcuni assistenti: 6 ragazzi e due ragazze. Ne ha parlato il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi in un briefing con i giornalisti. I giovani indossavano la maglietta della Gmg ed erano seduti in cerchio attorno al Papa. 
Papa Francesco al carcere minorile di Roma

Era presente anche un giudice minorile che ha espresso la sua gratitudine per l’impegno della Chiesa nella pastorale carceraria e poi ha detto che la prossima settimana ci sarà una buona notizia per questi ragazzi, forse un atto di clemenza, ha spiegato padre Lombardi.
I ragazzi hanno chiesto al Papa di benedire alcuni oggetti, si sono fatti firmare una foto con Papa Francesco; una ragazza ha cantato una canzone composta appositamente per il Pontefice e poi gli ha letto una lettera scritta a nome delle sue compagne di carcere. 

Quindi gli ha donato un grande Rosario con una Croce su cui era scritto “Candelaria nunca mais”, Candelaria mai più. Si tratta di un raid della polizia a Rio de Janeiro che nel luglio del 1993 uccisero 11 bambini di strada che dormivano davanti alla Chiesa di Candelaria.
Il Papa ha pregato davanti al Rosario e ha detto con forza: “Mai più violenza, solo amore, mai più violenza, solo amore!”. Ha invitato i ragazzi a pregare per le vittime della violenza; poi li ha incoraggiati a guardare al futuro e ha chiesto loro di pregare per lui. 

E’ stato un incontro molto commovente – ha detto padre Lombardi - che mostra come per il Papa la Gmg non debba dimenticare i carcerati. Il portavoce vaticano ha ricordato infine che Papa Francesco è molto vicino al mondo delle carceri e continua a telefonare ogni due settimane a un gruppo di detenuti in Argentina.

venerdì 26 luglio 2013

Repubblica Dominicana - Congresso aumenta carcere per i minori

MISNA
Il Congresso dominicano ha aumentato da 5 a 8 anni di reclusione la pena massima per gli adolescenti fra i 16 e i 18 anni responsabili di crimini, tra le proteste delle organizzazioni a difesa dei diritti umani.

Demóstenes Martínez, presidente della Commissione giustizia della Camera dei Deputati, ha difeso con forza la decisione sostenendo che contribuirà a ridurre la partecipazione di minori in attività delittuose. Nel 2012, secondo dati ufficiali, circa 5000 reati sono stati commessi da minori.

La nuova norma è stata approvata con 106 voti a favore e 9 contro alla Camera dopo il via libera già ottenuto in Senato a giugno. In entrambe le camere il Partido de la Liberación Dominicana (Pld, governo) ha ampia maggioranza di rappresentanti. Resta ormai solo la promulgazione per l’entrata in vigore della nuova legge. Ma per Guadalupe Valdez, deputata dell’opposizione, il testo non è stato opportunamente analizzato dalla Commissione diritti umani per verificare se sia o meno in contrasto con i trattati internazionali sottoscritti dalla Repubblica Dominicana.

La pena massima a otto anni di carcere è prevista per minori che commettono omicidi, violenze sessuali, furti aggravati, sequestri e partecipino ad attività legate al narcotraffico. In un primo momento la Camera aveva proposto di innalzarla ulteriormente, fino a 15 anni, prevedendo di aumentare anche da 3 a 10 anni la detenzione per adolescenti fra i 13 e i 15 anni; l’iniziativa è stata tuttavia respinta dal Senato.

Australian immigration and asylum - Manus Island: a troubled history

The GuardianHigh rates of depression and under-resourced medical facilities are among the criticisms levelled at the PNG centre
The Manus Island detention centre was reopened by the Gillard government
 in November 2011, to the outrage of Amnesty International and refugee groups.
Photograph: SUPPLIED/PR IMAGE
The offshore immigration detention centre on Papua New Guinea'sManus Island, which is set to be expanded under the federal government's new asylum seeker policy, is one of the most controversial processing centres in the Australian network.

High rates of depression and anxiety among detainees, woefully under-resourced medical facilities and a lack of access for human rights organisations are just some of the criticisms that have been levelled at the detention centre.

Manus Island opened in 2001 along with another facility on Nauru under the government of John Howard as part of the "Pacific Solution" response to large numbers of people seeking asylum by boat. Among the 1,637 asylum seekers processed between the two centres were the 433 passengers from the Tampa.

Both centres were heavily criticised for the conditions asylum seekers lived in and the lack of access given to human rights organisations. The Australian human rights commission was denied assistance by the department of immigration in accessing Manus for inspection.

Kevin Rudd closed both centres in 2008, by which time no asylum seeker had been held at the Manus Island centre since the last refugee Aladdin Sisalem left in 2004. Sisalem was the sole detainee for 10 months at a cost to Australia of $250,000 a month.

In November 2011, the Gillard government reopened the centre – to theoutrage of Amnesty International and refugee groups – with 19 Iranian and Sri Lankan asylum seekers flown in from Christmas Island with federal police officers, Department of Immigration staff and medical staff.

In April 2013, ABC TV's Four Corners revealed a desperately under-resourced medical facility with no places for children, according to a doctor who worked in the centre on behalf of International Health and Medical Services (IHMS). At the time, the Australian government was paying IMHS $2.5m a month to provide health services for the Manus Island and Nauru centres.

Gillard and the prime minister of Papua New Guinea, Peter O'Neill, reached an agreement in late May to begin a tender process for construction to make the centre permanent. The government wanted to increase the capacity to hold 600 asylum seekers, including families, and 200 staff.

In July 2013, the United Nations high commissioner for refugeesreleased a damning report on the state of the centre, finding that every asylum seeker housed there displayed signs of depression and anxiety.

The most recent transfer of asylum seekers to Manus Island was in July 2013, with 18 single adult males moved under escort from Australian federal police. It was the 18th transfer since the re-opening.

Helen Davidson

Immigrazione, immigrato precipita da aereo: era nascosto nel carrello. Ritrovato il corpo

La Repubblica
L'uomo è caduto a a Niamey, la capitale del Niger, a pochi metri da un cittadino che ha dato l'allarme. Tracce di sangue sono state trovate anche sull'ala sinistra del velivolo partito da Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, a Parigi Charles-de-Gaulle

PARIGI - Si era nascosto nel vano dei carrelli di aereo Air France. Ma non ce l'ha fatta. Un passeggero clandestino è precipitato dal volo mentre era in quota ed è stato ritrovato morto a Niamey, la capitale del Niger. L'informazione, rivelata da Bbc Africa, è stata confermata, con molta prudenza dalla compagnia aerea francese.

"Secondo le prime informazioni di cui disponiamo, si tratterebbe di un passeggero clandestino che si era nascosto nell'aereo. Sarebbe caduto ieri dal vano di uno dei carrelli" dell'aereo, ha spiegato Christophe Paumier, portavoce di Air France. "Per il momento, non disponiamo di elementi certi. L'aereo è stato fermato a Niamey e l'indagine viene condotta dalle autorità locali". Si tratterebbe del volo Air France AF547, che avrebbe dovuto collegare Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, a Parigi Charles-de-Gaulle.

L'uomo è caduto verso le 5 di mattina a pochi metri da un residente che ha dato l'allarme, ha spiegato il ministro degli Interni del Niger, Abdou Labo. "Quando la polizia è arrivata ha trovato il corpo senza vita di un uomo di colore. Era riverso in una pozza di sangue. Tracce di sangue sono state trovate anche sull'ala sinistra dell'aereo".

"I passeggeri del volo devono essere interrogati, potranno ripartire solo domani, ed è stata aperta un'inchiesta per determinare le condizioni in cui si è svolto l'imbarco", ha aggiunto il ministro.

Nigeria : des condamnés à mort ont été transférés près du lieu d'exécution

Amnesty International
Amnesty International a reçu des informations inquiétantes selon lesquelles les autorités pénitentiaires d'une prison du Nigeria auraient transféré, mardi 23 juillet, un groupe de détenus dans des cellules plus proches de la potence. Parmi eux se trouve un homme qui a échappé de justesse à une exécution en juin.
Au vu des dernières informations, il semble que les autorités de la prison de Benin, au Nigeria, se préparent à procéder à de nouvelles exécutions »

Lucy Freeman
Directrice adjointe du programme Afrique d'Amnesty International.

Il s'agit d'un retournement de situation cruel pour l'un des hommes qui viennent d'être transférés. Il faisait partie des personnes conduites à la potence le mois dernier pour être pendues mais les autorités ont reporté son exécution quand elles se sont rendu compte que, selon les termes de sa condamnation, il devait en fait être fusillé.

De nombreux pays d'Afrique de l'Ouest et du monde entier abandonnent la peine de mort mais le Nigeria persiste à aller à l'encontre de cette tendance internationale marquée. Le président Goodluck Jonathan doit demander la fin des exécutions dans le pays et restaurer le moratoire qui était en place auparavant. »
Lucy Freeman

Bien que l'on pense que les ordres d'exécution ont déjà été signés pour ces hommes, des recours introduits dans le cadre des affaires les concernant sont toujours en suspens.

Le 24 juin, quatre détenus ont été exécutés à la prison de Benin, dans l'État d'Edo (sud du Nigeria). Il s'agissait des premières exécutions judiciaires recensées dans le pays depuis 2006.

Amnesty International tente actuellement de vérifier les informations selon lesquelles le gouverneur de l'État d'Edo aurait signé deux ordres d'exécution supplémentaires dans la matinée du 24 juin.

Selon le rapport d'Amnesty International Condamnations à mort et exécutions en 2012, 56 personnes ont été condamnées à mort au Nigeria en 2012 et un millier de détenus environ sont sous le coup d’une condamnation à la peine capitale dans le pays

Carcere - Rebibbia, detenuto si suicida E' il quarto caso nel Lazio nel 2013

Nuovo Paese SeraA dare l'annuncio della morte il garante Angiolo Marroni: "Un dramma della disperazione e della solitudine". Nieri: "Sovraffollamento al 46 per cento"

"Si è tolto la vita tagliandosi la gola con una lametta all’interno della sua cella, nella sezione G8 del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. E’ morto così, un detenuto italiano di 53 anni originario di Roma, Piero Bottini". Così in una nota il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni.

IL QUARTO SUICIDIO DELL'ANNO - "Quello di Piero è il quarto suicidio nelle carceri del Lazio nel 2013. Da gennaio ad oggi i decessi registrati negli istituti della regione sono stati 12: quattro suicidi, tre per malattia e quattro per cause ancora da accertare. In base alle statistiche, nove dei dodici decessi del 2013 si sono registrati a Rebibbia Nuovo Complesso - si legge nella nota - A quanto appreso dai collaboratori del Garante, Bottini era arrivato a Rebibbia N.C. a fine giugno, proveniente da un carcere toscano. Dopo aver passato gli ultimi nove anni in carcere, doveva ancora scontarne quattro. Dal momento del suo ingresso in carcere l’uomo, che era stato lasciato dalla moglie, era stato preso in carico dall’area educativa e segnalato a psicologa e psichiatra dal momento che manifestava segni di squilibrio e rifiutava la terapia che gli era stata assegnata".

"DRAMMA DELLA DISPERAZIONE - "Anche se occorrerà aspettare i risultati delle indagini avviate - ha detto il Garante Angiolo Marroni - credo si possa dire che quello di Piero è un dramma della disperazione e della solitudine. Dalle informazioni raccolte, quest’uomo era stato detenuto/attore a Sollicciano, ma sembra avesse passato un periodo della sua detenzione anche negli ospedali psichiatrici giudiziari di Aversa e Montelupo Fiorentino. La fine della sua vita tormentata deve essere, poi, inquadrata nel contesto di un carcere come quello di Rebibbia Nuovo Complesso, il più grande del Lazio, con un sovraffollamento del 46%, senza un direttore a tempo pieno e dove si sono registrati ben nove decessi in soli sette mesi. Mi domando ancora una volta, anche per questo ennesimo dramma, se il carcere, per una persona così fragile e psicologicamente disagiata, fosse la soluzione migliore".

NIERI: "SOVRAFFOLLAMENTO AL 46 PER CENTO" - “A pochi giorni dalla visita della Presidente della Camera Laura Boldrini a Regina Coeli, che aveva richiamato l’attenzione mediatica sul sovraffollamento strutturale dei nostri istituti di pena, oggi apprendiamo che un detenuto di 53 anni si è tolto la vita a Rebibbia N.C., dove il sovraffollamento è arrivato al 46%. Non è mai facile riuscire a cogliere in pieno il disagio di una persona che arriva a compiere un gesto così drammatico, ma è significativo ricordare che i suicidi commessi nelle carceri italiane hanno una frequenza circa 19 volte maggiore rispetto a quelli commessi dalle persone libere. I detenuti che si tolgono la vita, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono particolarmente difficili a causa del sovraffollamento, appunto, ma anche delle poche attività trattamentali e della scarsa presenza del volontariato”. E’ quanto dichiara, in una nota, il vicesindaco di Roma Capitale Luigi Nieri. “Si uccide chi conosce il proprio destino e ne teme l’ineluttabilità, ma anche chi soffre per una mancanza totale di prospettive. E’ evidente che episodi tragici come questo vanno scongiurati, prima di tutto, tutelando la dignità delle persone incarcerate e costruendo per loro un percorso di riabilitazione effettiva, per non togliere a una persona già privata della libertà personale, anche il rispetto di se stesso e la voglia di vivere. La pena, è scritto nella nostra Costituzione, deve avere funzioni rieducative: chi ha sbagliato deve avere l’occasione di riabilitarsi e reinserirsi nella società. - Nieri conclude - La mia solidarietà alla famiglia e agli amici del nostro sfortunato concittadino”.

giovedì 25 luglio 2013

Syria's exodus: a refugee crisis for the world

The Guardian
  • Exodus from Syrian civil war is overwhelming region – UN 
  • Britain may be asked to take thousands of displaced people 
  • Aid officials say population flight is becoming permanent
Western countries including the US and Britain may be asked to accept tens of thousands of Syrian refugees because the exodus from the civil war is overwhelming countries in the region, the UN's refugee chief has warned.

The Zaatari refugee camp near the Jordanian city of Mafraq shelters 115,000
Syrian refugees, posing a humanitarian crisis and a threat to global security,
 say UN officials. Photograph: Mandel Ngan/AFP/Getty Images

With no end to the war in sight, the flight of nearly 2 million people from Syria over the past two years is showing every sign of becoming a permanent population shift, like the Palestinian crises of 1948 and 1967, with grave implications for countries such as Lebanon and Jordan, UN and other humanitarian aid officials say.

One in six people in Lebanon are now Syrian refugees. The biggest camp in Jordan has become the country's fourth-largest city. In addition to those who have crossed borders, at least four million Syrians are believed to have been displaced within their own country, meaning that more than a quarter of the population has been uprooted.

In an interview with the Guardian, António Guterres, the United Nations high commissioner for refugees, said the situation was already far more than just a humanitarian crisis. If a resolution to the conflict was not found within months, the UN will look to resettle tens of thousands of Syrian refugees in countries better able to afford to host them, including Britain. Germany has already offered to take 5,000, but other offers have been limited, Guterres said.

"We are facing in the Middle East something that is more than a humanitarian crisis, more than a regional crisis, it is becoming a real threat to global peace and security," Guterres said.

"We are already seeing the multiplication of security incidents in Iraq and Lebanon, and Jordan is facing a very difficult economic situation."

Guterres compared the Syrian refugee issue to that of Iraqis during the last decade, when more than 100,000 were resettled away from the region. "If things go on for a prolonged period of time then resettlement will become a central part of our strategy," he said. "We would like when the time comes … to be able to launch a resettlement programme as massive as the one for Iraqis."

The Syrian exodus has already surpassed almost every other refugee crisis that international organisations have dealt with in the past 40 years. The Yugoslav wars of the 1990s provide the closest parallel, with both conflicts having a strong ethnic-sectarian dimension and the crumbling of state control raising the spectre of partition.

The knock-on effect on regional countries has been telling. Tensions between refugee communities and local populations have increased dramatically in Jordan and Lebanon, as the influx of people piles pressure on local services such as schools and hospitals, and disrupts job markets. The upshot has been a greater effort by Syria's neighbours to manage the flow of refugees into their countries.


"Turkey and Jordan have become so overwhelmed. At the same time there are some very worrying consequences on the security point of view, with the infiltration of armed people, that the border has had to be more controlled. This means refugees are still coming, but they have to come in gradually, which means we have a number of people stranded waiting to cross," Guterres said.
Some refugees have found life so wretched in camps that they have started to return home. But at present this is still a trickle.

"They are not going home, and nor can they be expected to at a time when communities are being slaughtered and Syria is disintegrating," said one Jordanian official who declined to be named. "We are living the reality of a long and devastating war with perhaps unmanageable consequences for us."

"The original expectation was that this was going to be a short wave of people that would quickly recede," said the EU's humanitarian commissioner, Kristalina Georgieva, who has twice visited Zaatari recently. "It has taken more than a year to recognise that this conflict is going to be long. We have been in contact with development organisations. We need urban managers, we need planners. We need permanent solutions."

Throughout the year, the UN has steadily increased its humanitarian aid appeal, which now stands at $5bn (£3.3bn) – the largest amount the global body has ever sought for a single crisis. The money would not just help refugees but assist Lebanon and Jordan to make the enormous social adjustments required to deal with rapidly expanding populations.

But Guterres said he was not optimistic the target would be reached. Gulf donors in particular such as Saudi Arabia, the UAE and Qatar appear to prefer to fund their own humanitarian activities rather than contributing to the general pot.

And needs are outstripping even the money raised so far. "The conflict produces more victims faster than our collective capacity to help," said Georgieva.

"When we look at the prospects, one that we all have to face is that this conflict is creating a large risk of sectarian cleansing. This is how Srebrenica happened, how Rwanda happened, by gradually building up this enormous wave that leads to catastrophic consequences. This is the [crisis] that makes me lose sleep."


 in Zaatari, Jordan, and