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mercoledì 19 giugno 2013

USA - Pena di morte- Paula Cooper, dono d'amore Salvata dall'appello di Wojtyla

Avvenire
Un paio di jeans e una camicetta donati da un’associazione benefica, 75 dollari in tasca e la laurea presa in cella. Paula Cooper ha messo piede fuori dal carcere di Rockville, in Indiana, per la prima volta dopo 27 anni. Con una sola speranza. Che non tutti negli Stati Uniti ricordino il suo nome.

Per più di un quarto di secolo Paula aveva aspettato di morire in prigione. O sulla sedia elettrica, o perché sapeva che avrebbe finito i suoi giorni nell’istituto di correzione dove era entrata sedicenne. Invece ora, a 43 anni e dopo essere stata protagonista di una delle più imponenti campagne contro la pena di morte della storia, la donna afroamericana condannata per un brutale omicidio ha una seconda opportunità – e prega che il mondo fuori dalle mura della prigione sia disposto a dargliela.

La sua storia ha diviso l’America più volte. Prima nel 1985, quando fu arrestata per aver ucciso a coltellate un’anziana catechista per rubarle una vecchia auto e 10 dollari. Allora ci fu chi chiedeva clemenza per la 15enne nera, proveniente da una famiglia sfasciata e cresciuta in mezzo alla violenza, e chi invocava una sentenza modello per punire senza pietà ciascuna delle 30 pugnalate inferte sul corpo della 78enne Ruth Pelke. Il giudice del caso, James Kimbrough, la pensava come questi ultimi e condannò Paula alla morte, facendone la più giovane detenuta nel braccio della morte nella storia americana. Ma chi pensava che giustizia era fatta si sbagliava.

La notizia del verdetto fece il giro del mondo, avviando una petizione che avrebbe raccolto più di due milioni di firme contro la sua esecuzione. Anche Giovanni Paolo II intervenne con un accorato appello perché la vita di Paula fosse risparmiata. Poco dopo, nel 1988, la Corte Suprema americana decretò che nessun criminale poteva essere condannato a morte per delitti commessi prima dei 16 anni (nel 2005 l’età è stata alzata a 18 anni). Lo stesso anno l’Indiana fu costretto a cambiare le sue leggi (che fino a quel momento prevedevano la messa a morte anche di bambini di 10 anni) e la sentenza di Paula fu commutata a 60 anni di carcere. Da allora la donna ha dedicato i suoi giorni allo studio, a un progetto per l’addestramento di cani per i non vedenti e all’assistenza psicologica di altre detenute.


Un percorso seguito da vicino e incoraggiato da Bill Pelke, nipote della vittima di Paula, che negli anni Novanta si era avvicinato all’assassina della nonna per assicurarle il perdono della famiglia. I meriti acquisiti durante la detenzione sono di recente stati trasformati in sconti di pena, tanto che qualche mese fa Paula Cooper è stata informata che, con ogni probabilità, non sarebbe morta in carcere. Sarebbe invece uscita, e avrebbe avuto la possibilità di ricominciare. Ma anche questo capitolo della sua vita ha diviso l’America. Accanto a chi celebra la riabilitazione della donna ci sono migliaia di persone che hanno preso d’assalto i siti Internet della prigione e del governatore dell’Indiana con inviti a ripensarci. C’è anche chi promette che farà di tutto per non permettere alla Cooper di voltare pagina, facendo sapere ai suoi nuovi vicini e al suo datore di lavoro chi è veramente.


Per questo il Dipartimento carcerario dell’Indiana ha portato la donna in una località segreta, fuori dai confini dello Stato. Dove Paula spera che il suo nome e il suo volto siano solo un nome e un volto. Qualunque.

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