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mercoledì 15 maggio 2013

Lettere: la condanna dei figli di detenuti

Corriere della Sera
Ricevo una mail che dice: “Il carcere, quello di San Vittore, e la mia infanzia si sono intersecati per tanti anni, tanti quanti gli anni di condanna dati a mia madre. Mi chiamo Greta e ho ventitré anni. Durante la mia infanzia non ho potuto avere la mamma vicina nei momenti più importanti perché era detenuta”.

E racconta: “Varcare la soglia di questo antico carcere era difficile, ma i giorni più tristi erano tutte le occasioni di festa o importanti: il Natale, i compleanni, il primo giorno di scuola, le recite di fine anno, il ritiro delle pagelle. Mia mamma non era mai presente”. La realtà dura e semplice è dunque questa: “Essere figli di detenuti vuol dire subire una condanna per qualcosa che non si è commesso”.

Oggi ai detenuti non è concesso di uscire dal carcere per essere presenti ad eventi importanti della vita familiare. L’unica eccezione è la morte di persone molto vicine al detenuto, ma anche in questi casi i divieti sono frequentissimi. Carenza di organici? Non solo. E comunque esiste un principio sancito dalla Carta Onu sui diritti del fanciullo: “Il bambino ha diritto di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori”.

E certo non si può dire che gli incontri in carcere siano qualcosa di sufficiente. Dice Greta, parlando della sua esperienza: “La sala colloqui di San Vittore non era predisposta per i bambini. I colloqui erano con tutti gli altri detenuti, tra me e la mamma c’era un tavolo di marmo freddo e non era permesso abbracciarsi”. Greta chiede di firmare una petizione per alleviare la condanna di tutti questi bambini, a cura dell’associazione Bambinisenzasbarre via change.org.

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