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mercoledì 10 aprile 2013

Un mondo senza pena di morte sembra sempre più vicino - Rapporto Annuale Amnesty 2012

La Repubblica
Amnesty International diffonde i dati sulle esecuzioni capitali nel 2012. Nonostante alcuni passi indietro c'è un generale e progressivo abbandono di questa pratica. Che però persiste negli Usa (l'unica nazione in tutte le Americhe) in Cina e in Arabia Saudita, Iran, Iraq e Yemen che hanno mantenuto alti livelli di esecuzione: il 99% delle condanne a morte eseguite nella regione ha avuto luogo in questi quattro paesi.
Un mondo senza boia è possibile: non è ancora vicino, ma è possibile. Amnesty International lo ribadisce, facendo il suo annuale bilancio sulla pena di morte. Niente illusioni, ma un filo di ottimismo è legittimo, lascia capire l'esame del rapporto 2012.

Qualche paese che aveva fermato le esecuzioni è tornato ad uccidere, sottolinea Amnesty: è il caso di Pakistan, India, Gambia e Giappone. In teoria i paesi mantenitori della pena capitale sono 58, ma soltanto 21 hanno eseguito le condanne nell'anno passato. Si parla di almeno 682 persone giustiziate, ma ovviamente le stime dell'organizzazione sono sempre molto più basse del reale. Anche perché il tema del patibolo è diventato sempre più imbarazzante: Cina, Iran, Giappone, Arabia Saudita, fra i massimi carnefici della propria cittadinanza, sono sempre meno disponibili a fornire dati. In certi casi, l'esecuzione viene tenuta nascosta persino alle famiglie del condannato, che vengono informate solo a cose fatte. Solo gli Stati Uniti pubblicizzano le cifre delle esecuzioni: 43 l'anno scorso, come nel 2011, ma solo in nove stati.

Secondo Salil Shetty, segretario generale di Amnesty, "nel mondo solo un paese su 10 continua a usare la pena di morte. I loro leader dovrebbero chiedersi perché applicano ancora una pena crudele e disumana che il resto del mondo sta abbandonando".
La tendenza verso l'abolizione sembra consolidarsi, anche perché nessuno ha più il coraggio di sostenere che la promessa dell'iniezione letale o del cappio possa funzionare come deterrente per evitare i crimini violenti. Il rapporto di Amnesty cita un'importante ricerca Usa del 2012, secondo cui l'argomento deterrenza ha perso ormai valore. "I governi che usano ancora la pena di morte non hanno più scuse. Non c'è più alcuna prova che indichi che la pena di morte abbia un potere deterrente speciale contro il crimine", sostiene Salil Shetty.

I metodi usati dai boia, scrive Amnesty, sono sempre i soliti: iniezione letale, impiccagione, fucilazione, decapitazione. Unica, atroce, curiosità: il caso di un condannato in Arabia Saudita, che dopo la decapitazione è stato crocifisso. Evidentemente la visione pubblica del corpo straziato e senza testa doveva servire di esempio per gli altri. Sembra essere questo, infatti, il senso della pena per i governi che insistono a tenerla in piedi: un utilizzo politico più che di giustizia. Quello per mettere a morte i cittadini è un apparato costosissimo, ingombrante, impegnativo, soprattutto per le nazioni che conservano un dibattito interno, più o meno democratico che sia.
Alcuni Stati americani sono arrivati a considerarne l'abolizione per soli motivi di bilancio, perché nella democrazia Usa il sistema dei rinvii, degli appelli e delle revisioni finisce per far diventare talmente costosa un'esecuzione che persino i conservazionisti sono disposti a rinunciare. Ma questo vale solo per gli Stati Uniti, dove l'attenzione all'opinione pubblica è viva. Altrove, un tale dibattito non esiste. E così "nel 2012 abbiamo ancora una volta assistito con grande preoccupazione all'uso della pena di morte per quelli che sono sembrati essere scopi politici, o come misura populista o come strumento di repressione", sottolinea Shetty. La strada per il mondo senza boia, insomma, è ancora lunga.


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