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lunedì 22 maggio 2023

Sudan, un milione di persone in fuga: UNHCR chiede di garantire gli aiuti e la sicurezza dei civili

www.politicamentecorretto.com
A più di un mese dall’inizio del conflitto, l’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, continua a intensificare le operazioni di risposta per oltre un milione di persone sfollate all’interno del Paese o fuggite verso i Paesi limitrofi e lancia un appello urgente per garantire la sicurezza dei civili e permettere agli operatori umanitari di muoversi liberamente in Sudan.


In Sudan, le persone affrontano i pericoli, fuggendo in particolare da Khartoum, dal Darfur e da altre aree non sicure. Secondo la Commissione Sudanese per i rifugiati (Commission for Refugees/COR), circa 88.000 rifugiati accolti dal Sudan a Khartoum sono fuggiti per mettersi in salvo dirigendosi verso il White Nile, Gedaref, Kassala Madani e Port Sudan. In queste località, l’UNHCR sta assicurando assistenza primaria ai rifugiati e alle persone in fuga, con alloggi, beni di prima necessità, acqua potabile, servizi igienico-sanitari, assistenza medica e supporto ai servizi d’istruzione.

Nel White Nile, dove sono arrivati da Khartoum oltre 75.000 rifugiati sud sudanesi, l’UNHCR sta fornendo assistenza ai nuovi arrivati, garantendo loro beni di prima necessità e un alloggio nei campi, coordinando, allo stesso tempo, la distribuzione di beni alimentari insieme al WFP (Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite) e svolgendo attività di registrazione e trasferimento nei campi anche per rifugiati eritrei,etiopi, e di altre nazionalità, in arrivo nel Sudan orientale.

Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), oltre 843.000 persone sono sfollate all’interno del Sudan, mentre quasi 250.000 persone che hanno varcato le frontiere sono state registrate dai governi dei Paesi confinanti e dall’UNHCR.

Il numero di quanti hanno fatto ingresso in Egitto, il Paese maggiormente impegnato nell’accoglienza, aumenta rapidamente: i partner dell’UNHCR stimano che gli arrivi siano più di 5.000 al giorno. Le persone sud sudanesi che hanno fatto ingresso nel Paese sono ora quasi 110.000, secondo il governo.

I principali valichi lungo il confine meridionale egiziano sono quelli di Qustul e di Argeen. La Mezzaluna Rossa egiziana, partner dell’UNHCR, stima che il 90 per cento degli arrivi si diriga a nord verso il Cairo e altre aree urbanizzate. L’UNHCR, inoltre, è impegnata a intensificare gli aiuti e le attività di risposta ad Assuan, da dove transitano numerosi rifugiati.
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In Sud Sudan, la frequenza degli arrivi resta elevata, circa 1.500 persone al giorno. Dei 63.000 arrivati, molti sono sud sudanesi che erano rifugiati in Sudan. La maggior parte di loro arriva attraverso il valico di Renk, nello Stato dell’Upper Nile. Il centro di transito vicino al confine è sempre più sovraffollato e le risorse sono in esaurimento, fattori questi che aumentano i rischi in materia di protezione. Nonostante le criticità logistiche, il governo e i partner ONU stanno compiendo sforzi enormi per trasportare le persone verso le proprie aree di origine via terra o attraversando i fiumi su imbarcazioni.

In Ciad, l’UNHCR ha consegnato aiuti a quasi 10.000 famiglie e ha intensificato le attività di monitoraggio per far fronte ai rischi e alle esigenze di protezione più impellenti. I nuovi arrivati si trovano per la maggior parte in siti di transito in aree remote vicine alla frontiera, con risorse estremamente limitate. Insieme al governo e ai partner, questa settimana l’UNHCR ha iniziato a trasferire presso i campi esistenti i nuovi arrivati.

Inizialmente, 20.000 rifugiati sud sudanesi da poco arrivati saranno trasferiti nei campi, dove riceveranno un alloggio per il proprio nucleo famigliare e avranno accesso a istruzione e cure mediche. L’inizio imminente della stagione delle piogge aggrava la misura d’urgenza delle operazioni.

venerdì 12 maggio 2023

Iran: numero “spaventoso” di esecuzioni (209 nel 2023), l'ONU chiede la fine della pena di morte.

Blog Diritti Umani - Human Rights

Il capo delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk ha espresso oggi costernazione per il numero spaventosamente alto di esecuzioni quest'anno in Iran e ha invitato le autorità a seguire l'esempio della maggior parte degli altri Stati e ad abolire la pena di morte o a sospendere tutte le esecuzioni .


"In media finora quest'anno, oltre 10 persone vengono messe a morte ogni settimana in Iran, rendendolo uno dei paesi con il numero più alto al mondo di esecuzioni", ha affermato Türk. Dal 1° gennaio, le fonti affermano che almeno 209 persone sono state giustiziate, principalmente per reati legati alla droga e un numero sproporzionatamente alto che rappresenta le minoranze. Il numero esatto delle esecuzioni non è noto a causa della mancanza di trasparenza del governo ed è probabile che la cifra sia più alta.

"A questo ritmo, l'Iran è preoccupantemente sulla stessa strada dell'anno scorso, quando secondo quanto riferito sono state giustiziate circa 580 persone", ha affermato Türk. "Questo è un record abominevole, in particolare se si considera il crescente consenso per l'abolizione universale della pena di morte".

Solo un piccolo numero di Stati impone e applica ancora la pena di morte.

Sabato, l'Iran ha messo a morte Habib Chaab, uno svedese-iraniano della minoranza araba Ahwazi, per "corruzione sulla terra", un reato capitale secondo la rigida interpretazione iraniana della legge islamica. I rapporti di lunedì dicono che Yousef Mehrdad e Sadrollah Fazeli Zare sono stati messi a morte per crimini tra cui la blasfemia.

Fonti affermano che almeno 45 persone, di cui 22 appartenenti alla minoranza beluci, sono state messe a morte  solo negli ultimi 14 giorni. La maggior parte è stata uccisa per accuse legate alla droga.

"L'imposizione della pena di morte per reati di droga è incompatibile con le norme e gli standard internazionali sui diritti umani", ha affermato Türk.

L'Alto Commissario ha esortato le autorità iraniane a stabilire una moratoria sulle esecuzioni in vista dell'abolizione della pena di morte.

ES 
Fonte: Unite Nation - Human Rights

domenica 30 aprile 2023

Migranti - Tunisia - L'obitorio di Sfax stracolmo di migranti annegati, sono più di 200

Ansa
L'obitorio centrale di Sfax, città tunisina da cui sono partiti molti migranti dall'inizio dell'anno, è stracolmo di un gran numero di cadaveri, vittime di naufragi.

Obitorio di Sfax (Foto Ansa)

"Martedì abbiamo contato più di 200 corpi, ben oltre la capacità dell'ospedale Habib Bourguiba di Sfax, il che crea anche un problema sanitario", ha detto all'Afp Faouzi Masmoudi, portavoce del tribunale di Sfax, seconda città del paese con quasi un milione di abitanti.
"Non sappiamo chi siano o da quale naufragio provengano e il numero sta crescendo", ha aggiunto, precisando che "quasi ogni giorno ci sono funerali". 

Solo il 20 aprile sono state seppellite almeno 30 persone. Ma "durante la festa musulmana dell'Eid tra il 21 e il 23 aprile scorsi sono stati ripescati molti cadaveri". 

I defunti vengono seppelliti dopo aver prelevato il loro Dna e assegnato un numero a ciascun corpo per facilitare la loro possibile identificazione da parte dei parenti, ha spiegato Masmoudi riferendo di significative "difficoltà" nel trovare un luogo di sepoltura per questi corpi, pur rilevando "sforzi concertati per seppellirli nei cimiteri comunali di Sfax".

"Dall'inizio dell'anno abbiamo contato il 24 aprile, più di 220 morti e dispersi, per lo più provenienti dall'Africa sub-sahariana", ha affermato Romdhane Ben Amor dell'Ong Forum Tunisino per i diritti economico e sociali (Ftdes), specializzata in migrazione. 

Secondo il Ftdes, "oltre il 78% delle partenze è avvenuto dalle coste di Sfax e Mahdia". Ben Amor ha ricordato che le autorità locali si erano impegnate lo scorso anno "a creare un cimitero speciale per i migranti, sulla base del fatto che non sono musulmani", ma che non è ancora pronto.

La partenza dei migranti africani dalla Tunisia si è intensificata dopo un duro discorso del 21 febbraio del presidente Kais Saied che ha condannato l'immigrazione clandestina presentandola come una minaccia demografica per il suo Paese. 

La Tunisia, alcune delle cui coste distano meno di 150 km dall'Italia, sta attraversando una grave crisi politica ed economica che sta spingendo anche molti tunisini a tentare di raggiungere l'Europa clandestinamente via mare a rischio della propria vita.

martedì 18 aprile 2023

Yemen - Scambio di 900 prigionieri - Ad un passo dalla pace, dopo 150 mila vittime e una tra le peggiori catastrofi umanitarie

Corriere della Sera
In tre giorni sono rilasciati quasi 900 detenuti. Settimana scorsa l’incontro a Sana’a per negoziare la fine del conflitto in corso dal 2015. In molti hanno riso e pianto per la felicità. In tanti sono scesi con dalla scaletta dell’aereo con il pugno alzato. Sono i prigionieri delle milizie ribelli Houthi che in queste ore stanno rientrando a casa, nell’ambito del maxi-scambio di prigionieri concordato dall’Arabia Saudita e dai rappresentanti del gruppo filo Teheran iniziato venerdì per porre fine al conflitto che devasta il Paese da oltre otto anni.
L'arrivo dei prigionieri a Sana'a

Tra chi è sceso dai voli, anche l’ex ministro della Difesa dello Yemen e il fratello dell’ex presidente, trasportati da Aden, controllata dal governo, alla capitale Sana’a. A mediare lo scambio che prevede il rilascio di 900 detenuti in tre giorni, il Comitato della Croce Rossa Internazionale. Si tratta della più grande operazione dopo il rilascio di oltre 1.000 prigionieri nell’ottobre 2020. Ma soprattutto
si tratta del primo concreto segnale che finalmente la guerra in Yemen si avvia alla sua conclusione, dopo aver provocato 150 mila morti tra combattenti e civili e una delle peggiori catastrofi umanitarie che la storia ricordi.

Sono stati 11.000 i bambini uccisi o mutilati nella guerra in Yemen

A contribuire sia ai colloqui sia al rilascio di prigionieri il riposizionamento dell’Arabia Saudita in particolare in relazioni ai rapporti con Teheran. L’intesa sottoscritta il 10 marzo scorso da Iran e Arabia Saudita, con la mediazione della Cina, per ripristinare le relazioni diplomatiche interrotte nel 2016, prevede accordi anche su diverse questioni di sicurezza, tra cui l’accordo sul nucleare iraniano e proprio il conflitto nello Yemen. In particolare l’accordo stabilisce che “l’Iran rispetti gli interessi sauditi nella regione e sostenga i piani di pace”. 


Inoltre, hanno aggiunto le fonti, “L’Iran ha assicurato che i suoi missili balistici non costituiranno una minaccia per l’Arabia Saudita”. Nelle scorse settimane anche il Wall Street Journal, citando fonti americane e saudite, aveva riferito di un’intesa riguardante lo Yemen raggiunta nell’ambito dell’accordo del 10 marzo scorso, secondo cui Teheran avrebbe accettato di mettere fine alle forniture di armi agli Houthi.

Marta Serafini




martedì 11 aprile 2023

L'orrore della Libia - l’Onu certifica torture e abusi: “La guardia costiera coopera coi trafficanti”- 4000 migranti nel campi di detenzione ufficiali e 18.000 in quelli illegali - di Francesca Mannocchi

La Stampa
La complicità dell’Unione europea: finanzia chi aiuta a commettere crimini contro i migranti. 


Il sei febbraio scorso - pochi giorni dopo il sesto rinnovo del Memorandum d’Intesa italo libico - il Ministro degli Esteri Antonio Tajani ha consegnato alla Libia il primo dei cinque mezzi finanziati dell’Unione Europea: una motovedetta capace di ospitare 200 migranti, che l’Italia consegnerà alla guardia costiera libica come previsto dal Support to Integrated border and migration managment in Libya, cioè il programma finanziato dalla Commissione Europea attraverso il Fondo per l’Africa che dal 2017 avrebbe l’obiettivo di rafforzare le autorità libiche.

Durante la cerimonia nel cantiere navale Vittoria a Adria, in provincia di Rovigo il Ministro Tajani ha speso parole incoraggianti: “Le autorità libiche hanno compiuto sforzi significativi nelle operazioni di salvataggio in mare e nel contenimento delle partenze irregolari, ma i flussi sono ancora molto alti”, ha detto alla presenza della ministra degli Esteri di Tripoli, Najla Mangoush e del commissario Ue per l’Allargamento e la politica di vicinato, Oliver Varhelyi.

Nessuno ha fatto menzione degli abusi subiti dalle persone migranti e anzi Várhelyi ha ribadito che non solo gli aiuti ridurranno le morti in mare ma che renderanno l’Europa più sicura. Un mese e mezzo dopo, alla fine di marzo, da un altro mezzo italiano donato alla Libia, il pattugliatore 656, la Guardia Costiera di Tripoli ha aperto il fuoco per allontanare la nave umanitaria Ocean Viking che si apprestava a soccorrere un barchino in difficoltà con ottanta persone a bordo. L’Ocean Viking non è riuscita ad avvinarsi e i migranti sono stati riportati a terra, in Libia, Paese che - val la pena ribadirlo ogni volta - le agenzie delle Nazioni Unite, le organizzazioni umanitarie definiscono da anni un “porto non sicuro”.

Il rapporto Onu - Passano pochi giorni e gli esperti delle Nazioni Unite pubblicano il rapporto finale della Missione d’inchiesta indipendente sulla Libia (Ffm). Un testo di 46 pagine, trasmesso al Consiglio di sicurezza Onu e acquisito dalla Corte penale dell’Aja, che sta esaminando le richieste di mandato di cattura internazionale depositate dal procuratore Karim Khan. Tre anni di lavoro sintetizzato da parole che non lasciano spazio ad ambiguità: “Il sostegno fornito dall’Ue alla guardia costiera libica in termini di respingimenti e intercettazioni ha portato alla violazione dei diritti umani”.

Quello che sostengono gli investigatori nel rapporto basato su numerosi viaggi, centinaia di interviste e migliaia di prove raccolte è che sebbene non sia possibile dare la responsabilità diretta all’Unione per i crimini di guerra, è evidente che “il sostegno fornito abbia aiutato e favorito i crimini commessi”. Lo scenario è chiaro: la guardia costiera, attrezzata e addestrata dall’Europa, ha lavorato in stretto coordinamento con le reti dei trafficanti di uomini, traffico che ha generato “entrate significative” che hanno stimolato continue e brutali violazioni dei diritti.

In pratica le istituzioni, direttamente formate dai Paesi europei, destinatarie di mezzi e motovedette, hanno agito da un lato in accordo con l’Ue, dall’altro in complicità con i trafficanti che avrebbero dovuto contrastare, lasciando impunite le reti criminali e consolidando il potere e la ricchezza delle milizie armate. Le stesse milizie che forti di quel potere e di quel denaro agiscono influenzando i governi che in Libia sono sempre due e sempre più fragili e esposti al ricatto. Gli investigatori Onu denunciano poi che le autorità non hanno concesso loro la possibilità di visitare i centri detentivi in tutto il Paese, a ulteriore dimostrazione, dopo anni di denunce che quei luoghi oggetto del Memorandum di Intesa, e destinatari di aiuti umanitari, esulino dal controllo delle istituzioni di cui l’Europa è partner ma sono piuttosto ostaggio degli opachi rapporti tra il Dipartimento contro l’Immigrazione Illegale -che dipende dal Ministero dell’Interno di Tripoli - e le reti del malaffare.

Se si leggono i numeri, incontrastabile unica prova di quanto accada in Libia, è facile capire di cosa stiamo parlando. A oggi, secondo i dati forniti da Oim, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, sarebbero 3800 i migranti presenti nei centri di detenzione che sono nominalmente sotto il controllo delle autorità, ma di fatto terra di nessuno. Infatti, i migranti riportati indietro nell’ultimo anno dai mezzi forniti alla Libia dall’Ue sono più di 20 mila. Conti alla mano vuol dire che 18 mila persone sono fuori dai radar. Probabilmente smistati al porto una volta riportati indietro e destinati a tornare oggetto di abusi e torture nei centri di detenzione illegali.

Federico Soda, ex capo missione Oim in Libia, l’aveva denunciato già due anni fa. Era il 2021 e diceva: “I dati delle persone che vengono soccorse e intercettate dalla guardia costiera libica non combaciano con il numero delle persone in detenzione, siamo molto preoccupati di non riuscire a tracciare questi spostamenti e ogni anno perdiamo traccia di migliaia di persone”. Migliaia di persone portate indietro, in un porto non sicuro, dai mezzi che l’Europa fornisce ai libici.

Libici contro libici - Non va meglio per la popolazione locale. La missione conoscitiva delle Nazioni Unite in Libia ha riscontrato che le violazioni relative alle detenzioni arbitrarie colpiscono su vasta scala anche i libici e i responsabili. Secondo gli investigatori Onu le autorità libiche reprimono sistematicamente il dissenso della società civile. L’indagine ha rilevato che le autorità libiche, in particolare i settori della sicurezza, limitino i diritti di riunione, associazione, espressione e per punire le critiche contro le autorità e la loro leadership. Istituzioni sempre più deboli, spiega il rapporto, sotto il crescente potere dei gruppi armati.

Soffrono gli attivisti, soffrono le donne, vittime di una discriminazione sistematica, mentre si aspetta ancora giustizia per la sparizione della parlamentare. Le autorità libiche hanno imposto condizioni impraticabili alle associazioni. È sempre più complicato per gli operatori umanitari internazionale ottenere visti per entrare in Libia e per quelle locali ottenere permessi per registrare i gruppi civici e operare. La conseguenza è che gli aiuti richiesti tardano ad arrivare e che nessuno - compresi i gruppi come Human Rights Watch che hanno il mandato di verificare abusi e mancato rispetto dei diritti umani - riesce a operare in libertà nel Paese.
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Dal 2016 al marzo 2023, le autorità governative, sia in Tripolitania che in Cirenaica, hanno emesso quattro decisioni e regolamenti che violano la libertà di formare associazioni locali e internazionali, e limitano le organizzazioni per i diritti umani che ne denunciano le violazioni. 
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Complicità europea - La missione speciale terminerà il suo mandato il prossimo 4 aprile senza la possibilità di rinnovo. È facile immaginare che varranno a poco le raccomandazioni per istituire un meccanismo autonomo che monitori le violazioni dei diritti umani. Dopo la pubblicazione del rapporto il portavoce della Commissione europea Peter Stano ha rispedito le accuse al mittente. “Non stiamo finanziando nessuna entità libica. Non stiamo dando denaro fisico ai partner in Libia - ha detto -. Quello che stiamo facendo è stanziare molto denaro, che viene poi di solito utilizzato dai partner internazionali, i nostri soldi non finanziano il modello di business dei contrabbandieri o di coloro che abusano e maltrattano le persone in Libia, al contrario. La maggior parte del denaro va a prendersi cura di queste stesse persone”.

L’anno scorso, il commissario europeo per gli affari interni Ylva Johansson ha dichiarato al parlamento europeo che “l’Ue ha dedicato circa 700 milioni di euro (760 milioni di dollari) alla Libia nel periodo 2014-2020, inclusi 59 milioni di euro (64 milioni di dollari)” per la guardia costiera. Formare e fornire mezzi è già finanziare quelle istituzioni e rappresenta quindi la responsabilità morale di una politica che l’Europa non mette in discussione nemmeno di fronte alle evidenze degli abusi.

lunedì 27 marzo 2023

Italia - Il decreto Meloni ferma la nave ong di Banksy "Luise Michel": ha fatto troppi salvataggi.

Il Riformista
Fermata la nave Luise Michel, dell’omonima ong, finanziata dall’artista di fama internazionale Banksy. Il fermo è stato eseguito dall’autorità marittima di Lampedusa. La nave è accsusata di aver violato il nuovo decreto ong del governo Meloni. Le autorità “ci impediscono di lasciare il porto e prestare soccorsi in mare” lamentano gli attivisti. 


Ieri pomeriggio la Guardia Costiera ha diffuso le ragioni del fermo. Soltanto ieri la nave aveva soccorso complessivamente cinque imbarcazioni. Alla nave era stato assegnato Trapani come porto di sbarco ma a causa delle gravi condizioni in cui si trovavano i naufraghi soccorsi la nave era stata autorizzata a raggiungere Lampedusa, dove si trova tutt’ora.

Dopo l’ultimo arrivo al molo l’equipaggio aveva scritto: “Durante lo sbarco a Lampedusa in prima mattinata, eravamo già stati informati che la nostra nave è in stato di fermo per violazione del nuovo decreto italiano”. “24 ore dopo che ci è stato detto che la nostra nave è stata fermata, non abbiamo ancora una giustificazione scritta ufficiale per la detenzione. Sappiamo di dozzine di barche in pericolo proprio di fronte all’isola in questo preciso momento, eppure ci viene impedito di prestare assistenza. Questo è inaccettabile!“, ha scritto in una nota l’equipaggio della Louise Michel. La Guardia Costiera ha diffuso nel pomeriggio una nota sui fatti.

Cinque gli interventi compiuti dalla nave ieri. Alle 2:10 il primo nei confronti di due gruppi di 38 migranti ciascuno, trasbordati successivamente sulla motovedetta Cp273 della Guardia Costiera. Alle 6,30 la nave ha sbarcato sul molo commerciale altre 78 persone che erano su un gommone, ma anche altri 39 (9 donne) che viaggiavano su un’imbarcazione in ferro di circa 7 metri, ed ancora altri 39 (6 donne e 1 minore) e poi 24 (sei donne e un minore). La Louise Michel è stata fermata per violazione del nuovo codice di condotta delle navi ong, entrato in vigore lo scorso gennaio, secondo quanto riporta una nota della Guardia Costiera. “Con la situazione che c’è in mare, trattenere una nave di soccorso in porto mentre donne, uomini e bambini rischiano di morire, è una cosa assurda”, ha detto Luca Casarini, capomissione di Mediterranea Saving Humans.
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Proseguono intanto gli sbarchi. L’hotspot è al collasso, oltre duemila persone, la capacità sarebbe di 400. La Louise Michel era arrivata ieri a Lampedusa con a bordo 178 migranti, soccorsi su quattro diverse imbarcazioni.

Antonio Lamorte

domenica 26 marzo 2023

Afghanistan. Chiudono le poche scuole ancora aperte alle donne, niente scuola per le ragazze adolescenti

Il Manifesto
Dopo la pausa invernale, il diktat talebano è diventato assoluto. Le pressioni internazionali cadono nel vuoto. Ma l’Emirato resta spaccato in due. In Afghanistan ieri sono state riaperte le scuole dopo la pausa invernale. Per gli studenti, di ogni ordine e grado, porte aperte. Per le studentesse, solo fino alla scuola primaria. Per le ragazze più grandi infatti vige ancora il bando informale del marzo 2022.


Quando, con un testacoda indicativo delle divisioni all’interno dei Talebani, il ministero prima ha annunciato la riapertura delle scuole, per poi lasciare a casa le studentesse adolescenti. Da allora, sempre a casa, tranne rari casi. L’Afghanistan rimane dunque l’unico Paese al mondo in cui il diritto all’istruzione è negato alle adolescenti. “Con l’inizio del nuovo anno scolastico in Afghanistan, ci rallegriamo per il ritorno di milioni di bambini e bambine nelle aule della scuola primaria. Tuttavia, siamo profondamente delusi di non vedere anche le ragazze adolescenti tornare nelle loro aule”, ha dichiarato Fran Equiza, rappresentante dell’Unicef in Afghanistan, l’agenzia dell’Onu che, come molte altre organizzazioni, fatica a trovare i modi per convincere i Talebani a cambiare rotta.

La decisione, parte di un più ampio pacchetto normativo che consolida l’apartheid di genere, non è stata presa a Kabul, sede dei ministeri, ma a Kandahar, sede dell’Amir al-muminin, la guida dei fedeli Haibatullah Akhundzada. Che con il suo entourage detta la rotta, diversa da quella di altri Talebani più pragmatici. Consapevoli che, intorno ai diritti delle donne, si gioca non solo una partita interna, con una società insofferente alle discriminazioni, ma anche internazionale, con quella comunità diplomatica da cui dipendono aiuti umanitari, aiuto allo sviluppo, la tenuta del sistema-Paese. A Kandahar sono convinti, sbagliando, che “l’autarchia è la via maestra, il popolo è con noi”. A Kabul l’ala più pragmatica cerca di rassicurare gli stranieri. Ormai senza pazienza. Come le studentesse afghane.

Le uniche novità sono negative: ora le scuole sono chiuse anche nelle poche aree in cui, grazie alla capacità di negoziazione delle comunità locali, erano rimaste aperte prima della pausa invernale, come nelle province settentrionali di Kunduz e Balkh. “Quest’anno le scuole sono aperte alle ragazze fino alla sesta classe, stiamo aspettando altre notifiche sulle classi superiori”, ha dichiarato all’agenzia Reuters Mohammed Ismail Abu Ahmad, a capo del dipartimento dell’educazione di Kunduz.

Che le scuole sarebbero rimaste chiuse era chiaro già nei giorni scorsi, a dispetto delle pressioni crescenti per rivedere le norme discriminatorie, inclusa quella del dicembre 2022 con cui si nega alle studentesse anche l’accesso all’università. Le pressioni provengono anche dai governi islamici, oltre che dall’Organizzazione della cooperazione islamica, il cui segretario Hissein Brahim Taha di recente ha ribadito che la questione non è chiusa. Pochi giorni fa, a margine di un incontro con una delegazione di religiosi provenienti dagli Emirati arabi, il ministro di fatto degli Esteri dell’Emirato, Amir Khan Muttaqi ha dichiarato: “La scuola per le ragazze non è haram, non è proibita dall’Islam, bloccarne l’accesso non è una questione religiosa, ma nazionale. Il governo ci lavorerà, ma ci vuole tempo”.

Il tempo trascorso è già troppo, secondo i membri dello Special Procedures, il più significativo gruppo di esperti del Consiglio per i Diritti umani Onu. In un comunicato scrivono che “le autorità di fatto Talebane non hanno alcuna giustificazione per negare il diritto all’educazione, né in termini religiosi, né tradizionali”. Da qui l’appello a “riaprire immediatamente tutte le scuole superiori e gli istituti educativi per le ragazze e le giovani donne”.

Per Catherine Russell, direttrice esecutiva dell’Unicef, “questa decisione ingiustificata e miope ha stroncato le speranze e i sogni di oltre un milione di ragazze e rappresenta un’altra triste pietra miliare nella costante erosione dei diritti delle ragazze e delle donne a livello nazionale”. Dall’Italia Daniela Fatarella, direttrice generale di Save the Children Italia, chiede che “il divieto di accesso all’istruzione per le ragazze venga revocato immediatamente, per il loro futuro e quello di tutto il Paese”.

Giuliano Battiston